di David Allegranti
ROMA (Public Policy) – E se la linea della fermezza di Mario Draghi stesse funzionando? Contrariamente ai molti allarmi dei giorni precedenti usciti sui giornali, venerdì 15 ottobre l’Italia non si è fermata. Qualche protesta, certo, ma il temuto blocco del porto di Trieste non c’è stato. Il presidente del Consiglio ha dunque vinto il primo round (primo perché è legittimo attendersene altri) nei confronti di populisti e sovranisti alla ricerca di una identità politica alternativa al draghismo. Anzi, forse Draghi ha cercato di mettere in evidenza proprio i limiti dei suoi avversari, cercando di governare lo scontro politico. “La linea della fermezza di Draghi sta funzionando, naturalmente con il sostegno delle forze più responsabili della coalizione di governo, a partire dal Pd, che sta dando una prova di serietà”, dice a Public Policy Andrea Romano, portavoce di Base riformista, la componente più numerosa del Pd in Parlamento. “Per questo veniamo premiati dagli elettori rispetto ad altre forze – penso alla Lega – che si sono mostrate ambigue sulla strategia vaccinale. Il Pd fin dal primo giorno si è mostrato responsabile e serio. L’Italia ha bisogno di serietà e responsabilità, non di ambiguità”. I ballottaggi che si concludono oggi, in città importanti come Roma e Torino, potrebbero rafforzare l’impressione di Romano, qualora il centrosinistra dovesse battere i candidati di centrodestra.
Certo, non tutto ha funzionato per il meglio, concede Romano. Il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese è finita sotto accusa per la gestione della piazza nel sabato in cui c’è stato l’assalto di Forza Nuova e fascisteria varia alla sede della Cgil: “È importante che Draghi tenga il punto, non per ragioni ideologiche ma perché è una persona che guarda al sodo. Qualcosa nel governo è perfettibile, ma d’altronde siamo in uno scenario del tutto nuovo, vale anche per politiche sanitarie”, dice ancora Romano: “Nei giorni scorsi c’è stata una saldatura tra movimenti neo fascisti e no vax, non era facile né immaginare né prevenire. Come per le politiche sanitarie durante una pandemia, non c’è uno spartito da seguire. L’esperienza di sabato scorso è stata impegnativa per tutti; forze dell’ordine, sindacati, partiti politici. Tutto può essere migliorato, ma le forze dell’ordine hanno contenuto il danno che avrebbe potuto essere molto più grave. Giorgia Meloni che si inventa un inesistente accordo fra forze dell’ordine, Viminale e neofascisti è un oltraggio al buon senso. Guardasse in casa sua prima di dare lezioni e bastonare il ministro dell’Interno e le forze dell’ordine”.
La mossa di Draghi sembra dare una mano anche ai non sovranisti del centrodestra, come Forza Italia, come certifica a Public Policy il senatore forzista Massimo Mallegni: “Mi sono battuto personalmente e ho combattuto per le aziende che facevano vaccini, e poi per vaccinare più persone possibile mentre nasceva l’ondata no-vax. Io credo che l’obbligo della vaccinazione sia uno sbaglio ma dobbiamo obbligare l’attività di comunità: chi opera all’interno dell’azienda o comunque in un posto pubblico deve avere il green pass perché non si può pensare che qualcuno contagiato o non vaccinato possa tornare a mettere in crisi il sistema sanitario. Sono morte più di 130mila persone, cosa dobbiamo fare di più? Non vuoi vaccinarti? Stai a casa ma se vuoi fare vita sociale devi avere il green pass”. Insomma, dice ancora Mallegni, “noi dobbiamo essere chiari, la salute non ha prezzo. Inoltre una Nazione ‘sicura’ dal punto di vista sanitario è sicuramente attrattiva dal punto di vista degli investimenti nazionali ed esteri e questo potrà sicuramente migliorare il nostro sviluppo economico. Anche dal punto di vista del turismo, sapere di far le proprie vacanze in un Paese sicuro dal punto di vista sanitario ci consente di attrarre tantissimo”.
La domanda che nelle ultime settimane Public Policy si va facendo resta intatta: con queste premesse, ancora da completare naturalmente, c’è spazio per un partito di Draghi o per Draghi in Italia? A leggere l’intervento-manifesto di Carlo Calenda sul Corriere della Sera di sabato scorso pare di sì, anche se non va immaginato, dice il leader di Azione, come un partito centrista che metta insieme Matteo Renzi, Luigi Brugnaro e Giovanni Toti: “Ci piace Draghi perché è il contrario di quello che votiamo, leggiamo sui giornali, scriviamo sui social e vediamo in tv. Sappiamo che ha una matrice liberal socialista, riformista e pragmatica; e tanto basta. La politica trasfigurata da arte di governo a arte del rumore continua invece imperterrita a ‘posizionarsi’, spostando continuamente il confine tra destra e sinistra a suo uso e consumo. Un esempio: prima del ballottaggio a Roma ero ‘il candidato della Lega’, immediatamente dopo, quando servivano i voti presi dalla nostra lista, sono tornato a essere parte del ‘campo largo’ del centrosinistra. Sappiamo già che alla prossima tornata elettorale tutto tornerà come prima. Ci chiederanno di votare contro i fascisti o contro i traditori della patria. Siamo sempre lì”. Da qui la necessità di un’offerta politica che sia in grado, dice Calenda, di “raccogliere i consensi che servono a staccare socialdemocratrici, popolari e liberali dall’abbraccio mortale con populisti e sovranisti”. L’obiettivo è quello di arrivare alla maggioranza Ursula che sostiene la Commissione europea, “possibilmente con Draghi ancora presente del Consiglio dopo il 2023”.
L’orizzonte di Calenda sembra essere molto lungo per gli standard della politica, destinati inevitabilmente a frantumare qualsiasi scenario in pochi mesi. Intanto c’è da capire che cosa succederà con l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Sovranisti e populisti, assai numerosi in Parlamento, sono un fronte consistente che cercherà di giocare la partita fino in fondo.
I BALLOTTAGGI
Il centrosinistra cerca il 5 a zero ai ballottaggi che si concludono oggi. Ma anche se finisse 4 a 1 – l’incognita vera sembra essere la sfida di Torino fra Paolo Damilano e Stefano Lo Russo – i progressisti potrebbero essere soddisfatti per questa tornata elettorale. Da qui a gridare al “cambio di vento” lettiano però ce ne corre. In un Paese che appare demotivato – in molte città al primo turno è andato a votare meno del 50 per cento degli aventi diritto – non si possono trarre conclusioni affrettate sulla traiettoria italiana. Molte sono le incognite per i prossimi mesi. Dall’elezione del presidente della Repubblica, come detto nella prima parte della nota, alla ripresa economica. La ripresa c’è ma va ancora declinata.
Nel frattempo però leader e partiti sono in cerca d’autore e lasciano spazi enormi all’azione politica di Draghi, la cui fase di supplenza potrebbe durare a lungo. Sembra quasi che la comunità dei partiti riscuota adesso quello che ha seminato per anni. Se è la mancanza di credibilità quella che li connota, la risposta tecnocratica appare per ora l’unica alternativa. Se insomma per anni è stato alimentato il vento del populismo come risposta alla crisi della rappresentanza, adesso “l’ingranaggio del potere”, per citare l’omonimo libro di Lorenzo Castellani, è tutto in mani tecnocratiche. La comunità politica saprà rinnovare se stessa oppure sarà inevitabilmente costretta a fare di nuovo appello ai commissariamenti per risolvere le proprie inefficienze? La Banca d’Italia è da anni un bacino di produzione di classe dirigente, prima o poi le risorse finiranno anche lì. Urgono nuove fucine produttive. (Public Policy)
@davidallegranti