Pensioni e riforme: l’insostenibile sistema italiano

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di Pietro Monsurrò

ROMA (Public Policy) – L’Italia è il Paese in Europa con la più alta spesa previdenziale in rapporto al Pil, dopo la Grecia, soprattutto grazie alle pensioni di reversibilità. Nel 2016 la spesa previdenziale superava il 16% del Pil (Eurostat, Government expenditures by function), quasi l’intera spesa sociale. E non è per l’elevata età media della popolazione: nel 2016 l’Italia era sì il Paese più anziano (il 26,6% della popolazione aveva più di 64 anni, Eurostat, Population by age group and sex), ma non molto più della Germania (26,2%), con una spesa previdenziale inferiore di un terzo.

La spesa previdenziale in Italia è il risultato di privilegi legali, soprattutto nel settore pubblico, regole folli per il calcolo delle pensioni, prepensionamenti in età infantile (molti sotto i 50 anni), e riforme incomplete (a cominciare dalla riforma Dini, che toccò solo chi non aveva già 18 anni di contributi all’epoca), cassate (come la riforma Maroni, abolita da Prodi), o in discussione (come la riforma Fornero).

Come spiegato da Giuliano Amato e Mauro Marè nel 2007 (“Il gioco delle pensioni”, Il Mulino), il problema è che in Italia i pensionati sono molti, votano, e sono altamente sindacalizzati: quasi metà degli iscritti è in pensione, mentre i giovani non sanno che farsene della tessera sindacale. (“Sindacati, nella messe di dati confusi una certezza: quasi metà degli iscritti non lavora più”, 29/4/2017, Il Fatto Quotidiano). La politica non può pensare ai giovani, che sono pochi, politicamente disorganizzati, e poco lungimiranti. E non ha aiutato il fatto che quando ancora avevamo tempo per riformare le pensioni, l’Italia entrò nell’euro, e i due Governi (Berlusconi e Prodi) dell’epoca decisero di spendere i “dividendi dell’euro” per aumentare la spesa primaria, anziché ridurre le tasse o il debito.

Qualche anno fa l’Inps, su pressioni del presidente Tito Boeri, introdusse il servizio “La mia pensione”. Le pensioni previste dal sistema erano insospettabilmente elevate: i calcoli erano fatti assumendo un tasso di crescita dell’1.5%, che in Italia non si vede probabilmente dagli anni ’80. Rifacendo i calcoli con un già ottimistico 1%, era chiaro che per i giovani la vecchiaia sarebbe stata meno che rosea (“L’Inps simula le pensioni, ma i conti sono sbagliati”, 8/5/2015, Libero).

Tra imposte sui risparmi, rischi di ulteriori crisi fiscali e finanziarie con relative minacce di patrimoniali, tassi di interesse nulli o negativi per opera della Bce, e un Governo che gioca col fuoco, anche la previdenza complementare ha i suoi rischi: sebbene per i giovani sia l’unica soluzione realistica, è improbabile che darà rendimenti significativi.

Anche l’ottimismo sul ruolo degli immigrati è eccessivo: i dati di Tito Boeri (“Boeri: Da immigrati un punto di Pil in contributi”, 20/7/2017, Repubblica) discussi l’anno scorso si riferivano ad un orizzonte di 22 anni, che data la bassa età media della popolazione immigrata sono pochi. Nel più lungo termine inizierebbero le uscite per pensioni, incluse le pensioni sociali di chi avrà lavorato saltuariamente e con paghe basse, e che potrebbe non aver contribuito a sufficienza per una pensione minima. Stranieri con lavori produttivi stabili e stranieri con presenza temporanea in Italia (che pagano contributi ma non maturano pensioni) hanno un effetto positivo sulle casse. In altri casi il contributo potrebbe essere negativo, soprattutto nel lungo termine.

L’Italia non cresce per una serie di problemi della società italiana e della Pubblica amministrazione (tasse, debito, banche, regolamentazioni, capitale umano, infrastrutture, giustizia civile, concorrenza, burocrazia…). Se iniziasse a crescere a ritmi sostenuti il sistema diventerebbe sostenibile. Ma ciò non accadrà: le nuove generazioni di italiani, in vecchiaia, dovranno dunque stringere la cinghia. (Public Policy)

@pietrom79