Investimenti in deficit, la richiesta all’Ue ha poco senso

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di Daniel Gros*

ROMA (Public Policy) – Una delle “leggi di natura” della politica italiana è che ogni nuovo Governo, appena insediato, promette maggiori risorse pubbliche per gli investimenti, e di conseguenza chiede all’Unione europea di cambiare le sue regole scomputando la spesa per infrastrutture dal calcolo del deficit ai fini del Patto di Stabilità. Si tratta effettivamente di una richiesta importante e che merita la giusta considerazione. Un argomento a sostegno di questo mutamento delle regole comunitarie – per esempio – è che la Costituzione di alcuni Paesi, inclusa in passato la Germania, contempla spesso un meccanismo del genere, in base al quale il deficit è accettabile nel caso in cui esso sia dovuto a spese infrastrutturali.

Questa “golden rule”, com’è stata ribattezzata, si fonda inoltre su un’ipotesi a prima vista convincente: appare ragionevole finanziare investimenti in debito perché questo debito, si dice, potrà essere ripagato con il maggiore gettito fiscale che discenderà dall’aumento del Pil generato a sua volta da infrastrutture più funzionali. E però un simile ragionamento, apparentemente lineare, è errato perché nasconde un dettaglio fondamentale, cioè la differenza fra investimento “lordo” e investimento “netto”. La tesi secondo cui la spesa pubblica in infrastrutture può essere finanziata dal debito, infatti, dà implicitamente per scontato che ogni singolo euro di tale spesa si trasformi in nuovo capitale. Ma così non è, o almeno così non è stato fino a oggi. Le economie mature, infatti, hanno già un considerevole stock di capitale. Tutte le strade, tutti gli aeroporti, le line ferroviarie, I ponti, eccetera, devono essere mantenuti in uno stato sufficientemente buono da poter essere utilizzati. Perciò il capitale fisso esistente ha bisogno di continui e ulteriori esborsi pubblici anche solo per mantenere intatto il proprio valore. Gli economisti descrivono questo fatto quando distinguono tra formazione lorda e netta di capitale. La formazione di capitale lordo equivale a ciò che lo Stato spende sulle infrastrutture, includendovi sia i nuovi progetti sia la manutenzione di quelli esistenti. Il concetto di “capitale netto” indica invece di quale ammontare è cresciuto effettivamente lo stock di capitale fisso in ragione della creazione di nuove strade, nuovi ponti, eccetera.

I residenti della città di Bruxelles, per fare un esempio, si sono accorti d’un tratto dell’importanza della manutenzione degli investimenti nel momento in cui hanno scoperto che le autorità locali per decenni hanno prestato ben poca attenzione a ponti e tunnel della capitale d’Europa. Queste componenti essenziali della rete infrastrutturale della città prima sono diventate difficilmente utilizzabili in ragione di crepe e infiltrazioni d’acqua, poi col tempo addirittura inservibili, e oggi devono essere praticamente ricostruite con un maggiore dispendio di risorse. Tuttavia questo lavoro di riparazione non crea nuovo valore, semplicemente ristabilisce il valore di ciò che era stato costruito in passato.

Una versione lungimirante della “golden rule”

Da tutto ciò discende che la cosiddetta “golden rule” dovrebbe essere un po’ diversa. Dovrebbe stabilire che sia accettabile finanziare a debito soltanto la formazione netta di capitale. In altre parole, fare debito aggiuntivo è giustificabile soltanto se lo Stato costruisce nuove strade o nuovi ponti, mantenendo quelli esistenti in buone condizioni. Nelle giovani economie a elevati ritmi di crescita, la differenza fra la formazione lorda e quella netta di capitale potrebbe non essere così importante perché lo stock di capitale iniziale è contenuto, e ciò comporta che si debba spendere poco per evitare il deprezzamento delle infrastrutture esistenti. Il discorso è completamente diverso nelle economie mature e a crescita lenta. Nelle economie mature, infatti, la maggior parte della spesa in infrastrutture è in realtà necessaria per mantenere lo stock esistente di capitale fisso. Così è anche in Italia. Già prima della crisi, una grossa percentuale degli esborsi in infrastrutture erano destinati al mantenimento delle stesse, necessari dunque per contrastare il normale deprezzamento dello stock di capitale, come si può osservare dai dati Eurostat rappresentati qui sotto nella Figura 1.

Negli ultimi anni è andata anche peggio: la spesa pubblica in infrastrutture si è ridotta a tal punto che lo stock di capitale del settore pubblico ha iniziato in realtà a declinare. In altre parole, la spesa in investimenti netti, in Italia, è diventata negativa a partire dal 2013! Questo fatto ha un’importante conseguenza: se fosse stata applicata la regola per cui il deficit fiscale consentito dal Patto di Stabilità deve essere corretto in base alla spesa di ogni singolo Paese in investimenti netti, allora paradossalmente il limite consentito per tale deficit per l’Italia sarebbe dovuto essere abbassato rispetto al 3% del Pil.

luiss open gros

 

Il grafico a destra della Figura 1 mostra invece le stesse tendenze per la Germania, dove la spesa in infrastrutture è stata più stabile negli anni (rispetto al Pil). Ma in compenso il livello di tale spesa è stato così basso che lo stock infrastrutturale esistente si sta depauperando. Poco tempo fa si è scoperto che quasi la totalità dei ponti delle autostrade del Paese non ha avuto la corretta manutenzione e perciò si richiede un dispendioso programma di interventi per prevenire eventuali crolli. Il famoso “deficit zero” dei tedeschi, dunque, è almeno in parte un’illusione.

Per un Paese come l’Italia, le conseguenze di un cambiamento delle regole contabili che muovesse nel senso di considerare – sempre ai fini del calcolo del deficit consentito – i dati sugli investimenti netti sarebbero radicali. Le uscite di bilancio destinate alle infrastrutture, definite anche come “formazione di capitale fisso lordo”, si attestano oggi attorno ai 33 miliardi di euro (dati 2017). Ma il sogno del Governo italiano di vedere questa cifra scomputata dal deficit consentito dal Patto di Stabilità è del tutto fuori luogo, visto che nello stesso Paese il “consumo” di capitale fisso (per esempio le infrastrutture) sfiora attualmente i 44 miliardi di euro l’anno; dunque il settore pubblico del Paese, ad oggi, è come se stesse riducendo il valore delle proprie infrastrutture di 11 miliardi di euro l’anno. A onor del vero, dunque, la stima del deficit di Roma andrebbe accresciuta in egual misura.

In definitiva, anche nello scenario più ottimistico di un effettivo cambiamento del Patto di Stabilità, l’Italia potrà conquistare qualche margine per fare più deficit soltanto se la sua spesa per infrastrutture sarà prima incrementata di almeno 11 miliardi di euro l’anno. (Public Policy) 

@LUISSopen

*testo pubblicato su Luiss Open. Gros è direttore del Centre for European Policy Studies (CEPS), Senior Fellow della LUISS School of European Political Economy e Member dell’Advisory Board del LUISS Center of Italian Mezzogiorno Studies