La Casa Bianca ha pubblicato di recente il documento che mette nero su bianco la propria “strategia” nei confronti della Cina. Dalla competizione tra “grandi potenze” al “realismo fondato sui principi”, passando per la guerriglia economica e il rifiuto dell’isolazionismo, ecco dove nascono alcuni dei suoi punti fermi
—
di Marco Valerio Lo Prete
ROMA (Public Policy) – Lo scorso 21 maggio, nel corso dell’Assemblea nazionale del popolo a Pechino, è stata presentata una proposta di legge sulla sicurezza a Hong Kong che ha scatenato proteste di piazza nella città autonoma e ha causato rimostranze delle cancellerie europee e americane. Ventiquattrore prima, negli Stati Uniti, l’Amministrazione Trump aveva consegnato al Congresso un documento altrettanto importante per capire quali nuove forme potrebbe assumere la sfida tra Washington e Pechino, sul futuro di Hong Kong e non solo. Si intitola “United States Strategic Approach to The People’s Republic of China”. In sedici pagine, il documento delinea “l’approccio strategico” che l’America intende assumere rispetto al Dragone. Nelle prime righe si ammette una delusione di fondo: da quando le relazioni diplomatiche tra i due Paesi sono state stabilite, nel 1979, la “speranza” americana era stata che “un maggiore coinvolgimento (di Pechino; Ndr) avrebbe alimentato aperture fondamentali sul fronte economico e su quello politico all’interno della Repubblica popolare cinese, portando all’emergere del Paese come stakeholder globale costruttivo e responsabile, caratterizzato da una società più aperta”. Speranza infranta. Da qui la necessità di riconoscere – si legge nel documento – che oggi siamo di fronte a “una competizione tra grandi potenze”. Washington precisa che non intende influenzare il futuro della Repubblica popolare (che spetta ai Cinesi decidere), né alimentare conflitti, ma solo “proteggere gli interessi vitali della nazione” americana.
Peter Navarro, identikit del consigliere della Casa Bianca su Cina e commercio
Tra le righe del documento, certo frutto di un lavoro collegiale, s’intravvedono intuizioni e convinzioni di uno dei più influenti consiglieri della Casa Bianca, l’economista Peter Navarro (nella foto). Dottorato ad Harvard, poi per vent’anni docente alla Merage School of Business dell’Università della California-Irvine, Navarro è stato nominato da Trump come direttore dell’Ufficio per la politica commerciale e manifatturiera (OTMP). Noto per le sue opinioni da “falco” sulla Cina, in questi ultimi giorni – secondo una ricostruzione della CNN – sarebbe particolarmente in auge alla Casa Bianca, anche perché tra i primi a insistere col Presidente e i colleghi dello staff, già a fine gennaio, sulla pericolosità della pandemia da Coronavirus in arrivo dalla Cina, sui suoi potenziali costi economici e umani per l’America, avendo perciò consigliato una risposta drastica fin da subito. Navarro, nel 2015, diede alle stampe un agile saggio, corredato di interviste ad esperti, carte geografiche e foto di armamenti militari cinesi, intitolato “Crouching Tiger. What China’s Militarism Means for the World”, ovvero “La Tigre Accovacciata. Cosa comporta il militarismo della Cina per il resto del mondo”. Le tesi di quel libro, nel 2015, fecero presa sul candidato repubblicano Trump che dunque lo scelse come consigliere economico per la sua campagna elettorale. Le stesse tesi, nel 2020, sembrano riaffiorare in vari punti del documento più importante per decifrare la postura asiatica di Washington.
Il fallimento dell’“idealismo” clintoniano
Nel libro “La Tigre accovacciata”, innanzitutto, Navarro invita il lettore a prendere atto del fallimento della “visione grandiosa e idealistica di Bill Clinton”. Secondo quell’Amministrazione Democratica, al potere dal 1993 al 2001, la strategia dell’“engagement” – o coinvolgimento – della Cina nella comunità internazionale avrebbe esercitato “un potere di addomesticamento” nei confronti della potenza asiatica. “Alla fine della sua Presidenza, nel 2000, sarebbe stato proprio Clinton – osserva Navarro – col deciso sostegno della comunità imprenditoriale americana, a caldeggiare l’engagement economico come strumento per trasformare la Cina in una democrazia pacifica di stile occidentale”. Lo stesso concetto, cinque anni dopo, si trova in apertura del documento appena stilato dalla Casa Bianca: “Negli ultimi due decenni, le riforme sono rallentate, si sono fermate o hanno compiuto passi indietro – si legge nel testo firmato da Donald Trump – Il rapido sviluppo economico della Repubblica popolare cinese e il maggiore coinvolgimento (engagement, nel testo in inglese) col resto del mondo non ha portato alla convergenza verso un ordine libero e aperto, con al centro il cittadino, come invece gli Stati Uniti avevano sperato. Il Partito comunista cinese ha scelto al contrario di sfruttare l’ordine libero, aperto e fondato sulle regole, ha tentato di rimodellare il sistema internazionale a suo favore”.
No al neo-isolazionismo, sì alla libertà di navigazione
Fallito il progetto “idealistico” di portare Pechino dalla parte di Washington, scriveva Navarro nel 2015, occorre resistere anche alle sirene opposte del “neo- isolazionismo”, secondo cui “la strada più lineare verso la pace – perlomeno tra Cina e Stati Uniti – è quella per cui l’America fa rientrare a casa le sue navi e le sue truppe, eliminando in questo modo le frizioni crescenti tra le due superpotenze”. Per Navarro un’eventuale ritirata americana dall’area dell’Asia Pacifico avrebbe almeno tre effetti negativi. I Paesi dell’est asiatico, una volta che si chiudesse l’ombrello americano, potrebbero armarsi (magari premendo facilmente sull’acceleratore del nucleare a uso militare nel caso di Corea del Sud e Giappone) e accrescere il rischio di guerre locali, causando instabilità globale. Allo stesso tempo gli Stati Uniti perderebbero una “prima linea di difesa” costituita dalle basi a stelle e strisce nei Paesi alleati e da questi stessi Paesi, indebolendo pure la propria capacità di rispondere rapidamente a un ipotetico “first strike” di Pechino contro l’America. Infine il mercantilismo cinese potrebbe rafforzarsi nell’area senza trovare ostacoli, tagliando progressivamente fuori dal fiorente mercato asiatico gli Stati Uniti. Cinque anni dopo, nel documento della Casa Bianca – e nonostante un certo isolazionismo sia nelle corde del Presidente Trump – si legge che Washington “continuerà a respingere la narrativa alimentata dal Partito comunista cinese secondo cui gli Stati Uniti starebbero attuando una ritirata strategica o intendano ridurre i loro impegni per la sicurezza internazionale”. Da qui discendono gli ampi riferimenti al rafforzamento della propria capacità militare nell’area dell’Asia Pacifico, da quella nucleare a quella spaziale, passando per il comparto cyber. D’altronde, secondo il documento della Presidenza, va garantita da subito “la libertà di navigazione ovunque il diritto internazionale lo consenta, compreso il Mar Meridionale Cinese”. Sulla “libertà di navigazione” insisteva anche Navarro, nel suo libro, dove spiegava che “mentre la forza militare della Cina cresce, essa potrebbe deliberatamente tentare di applicare la sua visione dei ‘mari chiusi’, per rendere inaccessibili acque e cielo alle forze armate degli Stati Uniti. Ovviamente nessun Presidente americano, probabilmente, tollererebbe una simile azione, visto che costituirebbe un duro colpo sia alla sicurezza nazionale che alla prosperità economica della nazione americana. Di conseguenza, se l’indipendenza di Taiwan può benissimo costituire per la Cina ‘la linea rossa’ che né Taiwan né gli Stati Uniti devono azzardarsi a superare, la libertà di navigazione e di sorvolo potrebbe benissimo essere ‘la linea rossa’ dell’America in Asia”.
“Pace attraverso la forza” e guerriglia economica
Scartati dunque idealismo e isolazionismo, la Casa Bianca sul dossier cinese dice di voler ricorrere oggi a un approccio di “realismo fondato sui princìpi”, che preservi “la pace attraverso la forza”. “Peace through strength” è una delle espressioni chiave del documento strategico di Trump sulla Cina e guarda caso è anche il titolo del capitolo conclusivo del libro di Navarro. È su questo punto che verosimilmente le idee di Trump e del suo economista si sono trovate a coincidere con maggiore naturalezza. Infatti, come ha scritto Germano Dottori nel libro “La visione di Trump. Obiettivi e strategie della nuova America” (Salerno Editrice), per la sua politica estera “Trump ha finora dimostrato di prediligere le armi di natura economica in modo più marcato rispetto al predecessore, che pure non le disdegnava affatto: di questa preferenza sono manifestazione non soltanto le sanzioni vere e proprie, ma anche la disinvolta imposizione di dazi e tariffe, cui si è fatto ricorso nel contesto di strategie negoziali funzionali all’ottenimento di ventagli complessi di obiettivi multipli. La politica commerciale, infatti, è stata orientata tanto al riequilibrio dei conti degli Stati Uniti con l’estero, cioè al recupero di posti di lavoro per gli americani, quanto al rallentamento del progresso tecnologico delle potenze percepite come rivali, in modo tale da garantire un risultato utile spendibile anche in caso di parziale insuccesso. Il tycoon ripone grande fiducia nel condizionamento esercitabile tramite la regolazione dei diritti di accesso al mercato commerciale e finanziario statunitense e si sta avvalendo di questo strumento con grande frequenza”. Navarro già cinque anni fa declinava la strategia della “pace attraverso la forza” consigliando contemporaneamente un rafforzamento militare ed economico degli Stati Uniti, sottolineando che il primo non sarebbe stato possibile senza il secondo. Da qui l’enfasi su un “riequilibrio commerciale” tra Washington e Pechino da perseguire in via prioritaria, su una “riforma fiscale” che non incentivi la delocalizzazione della manifattura americana, e su una “tolleranza zero nella protezione della proprietà intellettuale per i settori privato e militare”. Tutti capisaldi, cinque anni dopo, della retorica e della strategia del Presidente Trump nella competizione con la Cina. (Public Policy)
@marcovaleriolp