SOLO LO 0,3% DEGLI EUROPEI CAMBIA PAESE. L’EPC: “POTENZIALE SOTTOUTILIZZATO”
(Public Policy) – Bruxelles, 18 giu – (di Daniela Sala) La
libertà di movimento è uno dei pilastri costitutivi
dell’Unione europea. Sulla carta, perché in realtà a
decidere di trasferirsi in un altro paese europeo è meno
dello 0,3% della popolazione ogni anno: complessivamente nel
2012 solo il 3,1% della popolazione europea tra i 15 e i 64
anni viveva in un paese diverso dal proprio.
A pesare sarebbero soprattutto le barriere linguistiche e
culturali, e in questo senso non stupisce che negli Stati
Uniti e in Australia il tasso di mobilità interno annuo sia
rispettivamente del 2,4% e del 1,5%. Ma in un momento in cui
la disoccupazione giovanile è al centro dell’agenda europea,
diversi studi concordano nel sottolineare come la mobilità
intra-europea sia uno step necessario nella costruzione di
un vero mercato del lavoro unico europeo e nell’uscita dalla
crisi.
“Dobbiamo puntare sulle giovani generazioni che sono le più
disponibili a spostarsi – ha dichiarato recentemente
Bernadette Segol, segretario generale di Etuc, la
confederazione dei sindacati europei – facendo attenzione,
però, che questo non determini un esaurimento delle risorse
umane nei paesi di provenienza”.
Un rischio, questo, che secondo una fonte vicina al mondo
imprenditoriale non sussiste: “La priorità per ogni paese
deve essere la competitività e la crescita. E in questo
senso la mobilità è un bene sia per i lavoratori che per
l’economia in generale”.
“Il mercato unico – si legge in uno studio del think tank
basato a Bruxelles European Policy Center (Epc) – non può
raggiungere il suo pieno potenziale nel generare ricchezza
se beni e servizi sono mobili, ma il lavoro non lo è”.
Certo la mobilità intra-europea non è la panacea ma, si
legge ancora nello stesso studio, “i numeri mostrano come
l’Europa sottoutilizzi questo enorme potenziale”.
E se il motivo principale che spinge alla mobilità è la ricerca
di un lavoro o quanto meno di uno stipendio migliore, molto si
potrebbe fare senza bisogno di ulteriori finanziamenti e di
modifiche di legge: l’Epc auspica ad esempio una
semplificazione nel riconoscimento delle qualifiche
professionali e un coordinamento più efficace dei servizi
sociali, in particolare per quanto riguarda i sussidi per la
disoccupazione e le pensioni.
Ad oggi, ad esempio, un disoccupato ha la possibilità di
beneficiare per tre mesi di un sussidio per cercare lavoro in
un altro paese, secondo una procedura che richiede un coordinamento
tra gli Stati membri che però sono in genere molto riluttanti,
non fidandosi gli uni degli altri: “una sorveglianza minima a
livello europeo potrebbe evitare queste tensioni”,
suggerisce l’Epc.
“C’è una difficoltà generalizzata nel fare incrociare
domanda e offerta di lavoro. E spesso i lavoratori di in un
paese non hanno le caratteristiche richieste dalle imprese,
e viceversa. Ed è un problema urgente perché entro il 2020
andranno in pensione oltre 75 milioni di lavoratori, creando
nuovi posti di lavoro, ma anche pesando ulteriormente sulla
spesa sociale”, spiega la fonte vicina al mondo
imprenditoriale.
E in questo senso sarebbe necessario, come suggerisce
ancora l’Epc, rafforzare le banche dati: ci si sta provando
con Eures, una rete pan-europea per chi cerca e offre
lavoro, che si propone di incoraggiare i giovani alla
mobilità fornendo informazioni utili su come spostarsi
all’estero.
Infine c’è il problema dei migranti provenienti da paesi
terzi: per loro, così come per i cittadini rumeni e bulgari,
la libertà di movimento è limitata e garantita solo ad
alcune categorie (residenti da lungo termine, ricercatori,
studenti e lavoratori altamente qualificati).
L’Epc li identifica come un “enorme potenziale con poche
possibilità”, senza contare che “una riallocazione dei
lavoratori migranti già presenti potrebbe alleviare gli
effetti della crisi nei paesi dove il tasso di
disoccupazione è più alto”.
Dato però che la materia non è di competenza diretta
dell’Ue le contraddizioni non mancano: Francia e Germania
hanno politiche opposte per quanto riguarda gli studenti
stranieri. Le università tedesche hanno avviato diversi
programmi per incoraggiare gli studenti stranieri a restare,
a patto che cerchino un lavoro nel proprio campo di studi.
Mentre la Francia tende a rimandare gli studenti al proprio
paese subito dopo la laurea.
E questa mancanza di una politica comune, avverte l’Epc,
può spingere gli Stati membri a competere tra loro, una
competizione che dal punto di vista della costituzione di un
mercato unico del lavoro avrebbe solo effetti
negativi.(Public Policy)
DSA