TUNISI (Public Policy) – di Gaetano Veninata – “È come se in Italia avessero vietato per 30 anni alla gente di andare in chiesa: ora ci sarebbero le chiese piene di persone. Lo stesso qui in Tunisia con l’Islam e i suoi simboli esteriori, come il velo”.
Sana Sbouai, tunisina cresciuta in Francia, a Cannes, unica giornalista professionista dell’associazione di blogger Nawaat, non ha timori sul futuro della Tunisia e delle donne tunisine. È tornata qui dopo la rivoluzione che a gennaio 2011 ha fatto cadere il regime di Zine El Abidine Ben Ali, per continuare in patria il lavoro che prima faceva in Europa. La incontriamo nella sede dell’associazione, nel centro di Tunisi, praticamente di fronte al ministero della Giustizia.
Con lei uno dei fondatori, Sami Ben Gharbia, che viveva da rifugiato politico in Olanda prima della rivoluzione. Nawaat ha vinto numerosi premi internazionali per il lavoro svolto prima e dopo il 14 gennaio (giorno della fuga di Ben Ali) e oggi rappresenta un punto di vista indipendente (“siamo un po’ anarchici”, dice scherzando ma non troppo Ben Gharbia) e spesso critico nei confronti del governo ad interim guidato dal partito di ispirazione islamista Ennadha. A Nawaat lavorano dieci persone, tra blogger e attivisti, oltre a numerosi collaboratori esterni. Fondato nel 2004, il blog venne praticamente subito censurato dal regime.
“Avevamo creato questo spazio – racconta Ben Gharbia – perchè chiunque fosse interessato alla politica, ai diritti umani, alla libertà di stampa, potesse liberamente parlarne”. Poi è arrivata – dopo circa un mese – la censura, e dopo qualche anno la rivoluzione: “Durante la rivolta abbiamo cercato di costruire un ponte tra i social media, i media tradizionali e la società civile, anche per far capire all’estero cosa stava succedendo in Tunisia”.
La sfida, continua l’attivista tunisino, “era quella di raggiungere nonostante la censura l’opinione pubblica tunisina”. Oggi il governo è in mano ad Ennadha, e per Nawaat il lavoro non è in fondo cambiato troppo: “Ancora oggi riceviamo minacce, sia legali che, a volte, fisiche, e ci sono sempre dei tentativi di controllo dei media da parte del governo”. Governo che spesso nell’opinione pubblica occidentale viene accusato di voler islamizzare la società tunisina: “Sì, lo so – ride Ben Gharbia – ma purtoppo quello del pericolo islamico è uno stereotipo comune in Europa, non riescono a vedere altro che barbe e veli, ma le società arabe sono molto più complicate”.
Un concetto che spiega meglio Sana Sbouai, che il velo non lo porta: “Il 61% degli studenti universitari a Tunisi è di sesso femminile, è solo una questione di tempo per una maggiore integrazione nella nostra società. Ad esempio ora c’è un buon numero di donne elette nell’assemblea costituente. La situazione delle donne in Tunisia è difficile, certo, ma come nel resto del mondo: c’è ancora da lottare”.
E la diffusione crescente dell’uso del velo tra le ragazze, dopo la rivoluzione? “Si tratta di una questione culturale, che gli europei non riescono a capire: oggi le tunisine sono libere di credere e di portare il velo”. Le chiediamo infine: è una forma di libertà? “Sì”, risponde decisa Sana. (Public Policy)
@VillaTelesio