L’ECONOMISTA FABIO SCACCIAVILLANI: L’ACCORDO METTE IN DISCUSSIONE LE VECCHIE RELAZIONI INDUSTRIALI
(Public Policy) – Roma, 24 nov – (di Leopoldo Papi)
Mercoledì Governo, associazioni di categoria e sindacati
(Cgil esclusa) hanno sottoscritto un accordo sulle “Linee
programmatiche per la crescita della produttività e della
competitività in Italia”.
Fabio Scacciavillani, economista del Fondo di investimento
dell’Oman, un passato professionale al Fmi, alla Bce e a
Goldman Sachs, osserva che, per valutarne gli effetti e la
portata, “bisogna scindere la faccenda in tre aspetti. Due
sono di natura economica, il terzo è politico”. E propone di
partire da quest’ultimo, a suo avviso non sufficientemente
evidenziato.
D. A QUALI IMPLICAZIONI POLITICHE SI RIFERISCE?
R. Con questo accordo viene messo in discussione il ‘quadro
di riferimento’ delle relazioni industriali fondato sul
modello della ‘concertazione’. Un approccio che ha radici
storiche profonde, risalenti agli anni ’70, e poi
formalizzato con gli accordi del 1993, al tempo del governo
guidato da Carlo Azeglio Ciampi.
La concertazione inaugurata da Ciampi si reggeva su uno
scambio molto preciso: moderazione salariale in cambio di
sicurezza del posto di lavoro. La prima avrebbe permesso di
far abbassare l’inflazione e di far entrare il Paese
nell’euro, in cambio della permanenza dello Statuto dei
lavoratori, e dell’articolo 18, che già allora era un po’ un
anacronismo. Il corollario di questo scambio era la
permanenza di un’alta tassazione sui redditi da lavoro
dipendente: un cuneo fiscale gigantesco, per mantenere
l’occupazione nel settore pubblico e il sistema
pensionistico.
Ma con questa intesa il ruolo delle grandi confederazioni e
quello della Confindustria vengono ad essere non solo erosi,
ma incrinati in modo sostanziale. Nel caso di Confindustria,
l’accordo va certamente a favore dei suoi iscritti, ma ciò
non toglie che il ruolo dell’associazione, come
organizzazione centralizzata e snodo di tutte le trattative
chiave, viene ad essere intaccato.
D. QUALI SONO INVECE GLI ASPETTI ECONOMICI?
R. Non ci sono riforme epocali, ma dati interessanti.
L’accordo interviene sulle quote di incrementi decisi a
livello aziendale e locale, e prende quindi atto che la
realtà è cambiata. Il contratto nazionale di lavoro aveva un
senso quando il settore industriale era dominato da poche
grandi imprese, tutte più o meno simili, con una forza
lavoro indifferenziata, dove l’operaio specializzato era una
rarità.
Data l’uniformità delle condizioni di lavoro, della
tecnologia e del fatto che i mercati erano sostanzialmente
nazionali, mentre il mercato internazionale era una quota
minore dei fatturati, si poteva ragionevolmente pensare che
il contratto nazionale fosse uno strumento adeguato per
quella situazione.
Oggi il sistema produttivo è frammentato. All’interno degli
stessi settori industriali ci sono nicchie che hanno
interessi e necessità completamente diverse. La meccanica di
precisione è qualcosa di completamente diverso dall’azienda
che produce ringhiere, o finestre. In questo mondo
l’uniformità dei contratti è una camicia di forza non più
tollerabile. L’accordo va dunque nella direzione giusta,
introduce degli elementi di modernità nelle relazioni
industriali.
D. QUALI EFFETTI PRODUCE QUEST’INTESA?
R. Oltre all’adeguamento della retribuzione alla
produttività a livello aziendale introduce la contrattazione
territoriale. Il contratto nazionale, imponendo dei minimi
salariali uniformi da Milano a Enna, di fatto ha scoraggiato
gli investimenti in quelle aree dove la gente sarebbe stata
disposta a lavorare per salari più bassi, perché il costo
della vita è più basso. Pe questa ragione, è stato uno
fattore importante del ritardo economico del Sud, che si è
tradotto in un sussidio indiretto al tessuto produttivo del
Nord.
C’è poi un’altra considerazione: l’adeguamento delle
retribuzioni alla produttività fa sì che i settori più
dinamici e con un valore aggiunto più alto se ne
avvantaggino rispetto a quelli un po’ in declino. Potendo
diversificare il salario a livello aziendale, le imprese
migliori, che possono pagare di più, possono attirare la
gente più brava, a scapito di aziende o settori meno
dinamici. Questo processo di allocazione delle risorse ai
settori con migliori prospettive è certamente
positivo.
D. È ABBASTANZA PER AUMENTARE LA PRODUTTIVITÀ
IN ITALIA E RILANCIARE LO SVILUPPO?
R. L’ accordo si focalizza solo su un pezzo, ma non
aggredisce gli altri aspetti, che sono afferenti
all’attività del governo. Oggi investire significa
scommettere sulla capacità di competere in mercati
internazionali. Quando investo in Italia devo pormi il
problema di come riesco a battere i miei concorrenti
tedeschi, malesi, brasiliani e tra poco tunisini o
sudafricani.
Competo con loro non solo sul design, sul prodotto, sulla
qualità dell’output, ma anche sulla velocità di servizio, e
dunque sulla dotazione di autostrade, di porti, di
logistica, sul costo del prodotto, e dunque sull’energia.
Competo sul fatto che se qualcuno non mi paga posso
riottenere i soldi nel giro di un mese, piuttosto che in 3
anni.
La vera ricetta per la produttività del “sistema Italia”
passa dunque, oltre che dalla maggior produttività del
lavoro – su cui si è intervenuti, almeno in parte, con
quest’accordo – per azioni incisive su questi settori.
Occorrono interventi sul cuneo fiscale, che va abbassato,
sia per i lavoratori che per le imprese. La politica fiscale
è schizzofrenica.
C’è poi un sistema legale che aumenta l’incertezza oltre
ogni limite tollerabile, che viene cambiato di frequente e
in modo arbitrario. Senza dimenticare le infrastrutture,
e i settori dell’energia, della politica energetica, dell’istruzione. Si
deve insomma creare un contesto favorevole agli
investimenti: ma si investe solo se ci sono dei ritorni.
Oggi, in Italia, è molto difficile calcolare il ritorno di
un investimento.
D. POTREBBE RICHIEDERE TEMPI LUNGHI FARE QUESTE RIFORME?
R. L’istruzione non si riforma in due mesi, certamente. Ma
su altri ambiti, come le semplificazioni, la
de-burocratizzazione, l’eliminazione di enti inutili e
procedure assurde, si può intervenire subito, e gli effetti
si vedrebbero immediatamente. All’obiezione che le riforme
strutturali hanno effetti sul lungo periodo rispondo:
dipende dalle riforme. (Public Policy)