Ancora sulla produttività: siamo un vaso di coccio tra vasi di coccio

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di Pietro Monsurrò

ROMA (Public Policy) – In Italia la crescita della produttività è ferma dagli anni ’80, con un lieve aumento negli anni ’90, seguito da un prolungato declino: oggi stiamo ancora ai livelli del 1983. In buona sostanza, sono 40 anni che l’Italia non cresce, non innova, non diventa più efficiente, non investe in capitale fisico, non ampia il proprio capitale umano: quasi metà della popolazione italiana ha sempre vissuto in un’economia in declino.

Le cause del declino sono antecedenti agli anni ’80. È perlomeno dagli anni ’70 che si va avanti a svalutazioni competitive (ora ci pensa l’euro a svalutarsi al posto della lira, e più tempo passa più ricorda la lira), si accumula debito, si tengono in piedi aziende decotte, si evita la concorrenza per far contente le lobby, si riempiono i cda delle banche di politici, aumenta il numero di disoccupati e sottoccupati, si investe poco in ricerca e in formazione di capitale umano, e si preferisce spendere in spese clientelari e assistenziali anziché in infrastrutture. Alcuni di questi problemi risalgono addirittura agli anni ’60: riforma previdenziale, riforma del lavoro, prime timide svalutazioni, crescita del debito pubblico.

Nessuno deve stupirsi dunque che i salari siano al palo da decenni, la povertà continui ad aumentare, etc. La produttività è infatti il motore della crescita: non è soltanto lavorando di più e accumulando più capitale che si cresce, ma aumentando l’efficienza della produzione e adottando nuove tecnologie e tecniche di produzione. Del resto, crescere lavorando di più non è necessariamente una cosa positiva, mentre crescere lavorando di meno, grazie alla produttività, dovrebbe essere l’obiettivo di ogni Paese ragionevole. Il problema è che in 40 anni nessuno ha discusso chiaramente del problema e proposto soluzioni: non si parla quasi mai di produttività, e nessun partito odierno propone politiche per interromperne la stagnazione e il declino.

Il campanello d’allarme avrebbe dovuto essere la crisi valutaria degli anni ’90, e almeno un qualche accenno di riforma fu fatto per ridurre almeno in parte la crescita della spesa previdenziale (il problema principale del bilancio pubblico), la disoccupazione (che era in aumento dal 1970), e il debito pubblico (che passò dal 120 al 105% in circa un decennio). Timide riforme che hanno soltanto evitato il crollo, ma mai risolto i problemi strutturali: è stato fatto il minimo necessario a non morire di overdose di demagogia, o – a pensar male – il minimo necessario per preservare lo status quo.

Poi è arrivato l’euro a rovinare tutto: annullando gli spread, rese il debito molto economico, e spinse i Governi dell’epoca (Berlusconi e Prodi) ad aumentare la spesa pubblica clientelare e a tenere il debito a livelli troppo elevati per un’economia in stagnazione perenne (soprattutto Berlusconi, Prodi preferiva le tasse). L’euro ha creato azzardo morale: ha reso possibile dal 2000 al 2010 fare politica spendendo i “dividendi dell’euro”, facendo esplodere la spesa sanitaria e previdenziale, e aumentando gli stipendi del pubblico impiego, senza fare nulla per la crescita, l’innovazione, la concorrenza, l’efficienza, la competitività, la produttività. Anche senza euro avremmo avuto difficoltà a produrre una classe dirigente seria, perché “uno un Einaudi non se lo può dare”, ma oggi ci troviamo con più debito, più spesa e una popolazione più anziana: venti anni buttati.

Poi è arrivata la crisi dei subprime (2008), dell’euro (2011), il Covid (2020), e ora la crisi degli idrocarburi (che sarebbe meno grave se nel 1986 non avessimo votato contro il nucleare: ma, ormai è evidente, agli italiani ripugna qualunque tipo di innovazione). L’economia italiana è un vaso di coccio tra vasi di coccio, ma tra tutti i vasi di coccio è quello più sottile e con più crepe.

Al momento – ed è un momento che dura da 40 anni – non c’è nessuna forza politica significativa che propone soluzioni ragionevoli al problema, segno che le classi politica e intellettuale non sono all’altezza, e l’elettorato confida nel ritorno delle politiche assistenziali del passato, che però non possiamo più permetterci. La perpetuazione del voto di scambio è la stella polare del pensiero politico italiano.

Sarà dunque difficile sbagliarsi se si prevede che tra altri 40 anni l’economia sarà ancora più fragile, il debito ancora più elevato, la produttività ancora più bassa, e i salari ancora più da fame. Il problema infatti non è tanto capire come uscire dall’impasse: è capire come convincere gli italiani, sia l’elettorato che la classe dirigente, a cambiare radicalmente rotta. I miracoli a volte accadono, quindi non possiamo escludere niente, ma giusto un miracolo servirebbe. (Public Policy)

@pietrom79