di Leopoldo Papi
ROMA (Public Policy) – Un dato, riportato nei giorni scorsi dall’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli, è forse utile per sfatare un mito alla base di molti discorsi sul mercato del lavoro italiano e sui suoi problemi, tra cui quello, di attualità in questa estate in cui molte attività faticano a trovare personale stagionale, della scarsità di offerta di lavoro in alcuni settori.
Nel ventennio 1997-2019, riferisce l’Ocpi, i profitti delle imprese per dipendente in termini reali, cioè al netto dell’inflazione, hanno avuto crescita nulla. L’indice è di particolare interesse: mette a rapporto il costo del lavoro e il margine operativo lordo – che nelle aziende è l’indicatore dell’efficienza operativa perché è dato dal profitto generato dal solo processo produttivo, esclusi i costi di ammortamento, finanziari e fiscali – e lo divide per la popolazione dei dipendenti. Il mito che sfata è quello secondo cui le imprese avrebbero aumentato i propri profitti comprimendo sempre e comunque costi del lavoro e salari. È questa una narrazione potente e suggestiva, che d’altronde ha radici intellettuali illustri: richiama immediatamente alla memoria la teoria del plusvalore di Marx, secondo cui il profitto altro non è che la differenza tra il valore effettivo della prestazione, che Marx chiamava “valore-lavoro” e il salario effettivamente corrisposto, espropriata indebitamente dal capitalista al lavoratore. Narrazione che sembra essere stata interiorizzata, fino a diventarne parte inconsapevole, nell’armamentario cognitivo di molti italiani, di qualsivoglia orientamento politico, quando si affrontano questi temi.
In vent’anni, dunque, le imprese italiane non sembrano aver fatto mediamente profitto “sulla pelle dei lavoratori”, almeno quelli regolarmente assunti. E tuttavia, nello stesso arco temporale, i salari italiani sono andati erodendosi: la retribuzione reale media è diminuita del 6 per cento, posizionando l’Italia al penultimo posto nella classifica dei Paesi dell’eurozona, davanti alla Grecia. Quali considerazioni si possono trarre da queste informazioni? A fornire una chiave interpretativa sempre il report Ocpi: in tutta l’Eurozona profitti e salari sono generalmente aumentati nei Paesi dove è cresciuta la produttività. Occorre sottolineare che si tratta di valori medi, che non rispecchiano necessariamente l’andamento della produttività nei settori specifici dell’economia. Inoltre, vi possono senz’altro essere state (e vi sono state) differenze nella ripartizione del reddito tra profitti e retribuzioni nei vari Paesi: ad esempio, in Francia entrambe le metriche sono cresciute in linea con la produttività, mentre in Germania e Spagna sono cresciuti di più i profitti. Ma il punto centrale della questione, riporta l’Ocpi è che “dal 1997 al 2019, al contrario di Germania e Francia, in Italia non si è creata ricchezza da distribuire tra imprese e dei lavoratori”. Più che la dialettica marxista, quando si parla di andamento del mercato del lavoro, sia quantitativo che qualitativo, sembra insomma valere il vecchio refrain economico e imprenditoriale secondo cui per distribuire ricchezza, bisogna prima in qualche modo crearla, cosa che in Italia avviene con sempre più difficoltà.
Per capire cosa affligge il mercato del lavoro italiano, oltre al problema della produttività stagnante (-0,1 la variazione della produttività totale dei fattori nel periodo 1995-2020) occorre poi prendere in considerazione il problema del costo del lavoro, sul quale com’è noto, pesa la componente data dal cuneo fiscale e contributivo: secondo le rilevazioni Ocse 2021, quella nel settore privato italiano è tra le più alte al mondo, pari al 46,5% (riferito alla retribuzione media di un lavoratore single) del costo complessivo della retribuzione, a fronte della media Ocse del 34,6%. Ma per avere una percezione più immediata e allarmante dell’incidenza del cuneo delle imposte sull’economia è forse utile considerare gli importi in valori assoluti. A riportarli un articolo del Sole 24 Ore: su circa 300 miliardi di salari lordi mediamente corrisposti in un anno dal settore privato circa il 60%, cioè l’impressionante importo di 180 miliardi, sono versati allo Stato sotto forma di tasse e contributi.
Come impatta il “cuneo fiscale” sul mercato del lavoro? Inserendosi proprio come un “cuneo” tra la curva della domanda (le imprese) e quella dell’offerta di lavoro (i lavoratori): se queste in condizioni spontanee si incontrerebbero in un prezzo di equilibrio liberamente contrattato, al prezzo gravato dal cuneo invece non si incontrano: tutta l’area compresa tra il prezzo determinato dal cuneo fiscale e il prezzo di equilibrio è lavoro perduto: cioè lavoro che le imprese sarebbero disposte a generare e lavoratori disposti a offrire, se non vi fosse il cuneo fiscale.
Tasse e contributi sono ovviamente necessari per il funzionamento di una società democratica moderna, e tuttavia occorre avere contezza dei loro effetti tossici quando diventano fattori eccessivi, specie se associati a condizioni di bassa o nulla produttività, e magari, come in questa congiuntura, di alta inflazione sui fattori di costo esterni per le imprese come forniture, materie prime ed energia. Un mix che per le imprese può diventare letale: un costo del lavoro già gravato da un cuneo delle imposte “fuori mercato”, può rendere impossibile soddisfare la richiesta di retribuzioni più alte da parte del personale. Non sorprende, che in queste circostanze si ricorra a forme di lavoro atipico e si manifesti il mercato del lavoro nero. Fioccano sui social gli slogan beffardi nei confronti delle imprese che faticano a trovare addetti, che finalmente (e giustamente) rifiutano quelle proposte, umilianti e poco convenienti: “E’ il mercato bellezza: non trovi personale? Offri di più e migliori condizioni”. Ma si può offrire di più finché i costi non superano i ricavi. Quando il mercato non remunera i costi, l’impresa chiude, e infatti molte imprese chiudono.
Occorre archiviare una volta per tutte i sorrisetti beffardi e le battute da social, in tempi che appaiono sempre più gravi e complessi. In Italia c’è senz’altro un problema di produttività, ferma da decenni, indice di un’economia che negli anni si è andata impoverendo di competenze, capacità di investimenti e innovazione e in generale ha perso competitività, scivolando sempre più in settori a basso valore aggiunto, di servizi e piccole attività, dove per forza di cose si tira a campare. Occorre abbandonare la contrapposizione fuorviante tra datori di lavoro (sfruttatori) e lavoratori (sfruttati). Se una contrapposizione c’è in Italia, è quella tra economia protetta, fatta di rendite clientelari e corporative improduttive, di cui beneficiano “imprenditori” e i loro lavoratori, e economia produttiva che fatica sempre più a innovare e crescere. La seconda sussidia la prima, con sempre più sofferenza. Difficile perseguire l’inclusione e la mobilità sociale in una comunità, creare opportunità e posti di lavoro di qualità, senza crescita economica e della produttività. Ancor più difficile pensare che sia possibile redistribuire ricchezza per proteggere i più deboli e sfortunati sotto forma di redditi di cittadinanza o altri sussidi miracolosi, se prima appunto, non si ricreano le condizioni per cui la ricchezza per pagarli possa essere generata. (Public Policy)
@leopoldopapi