di Leopoldo Papi
ROMA (Public Policy) – La scelta del presidente del Consiglio Mario Draghi, insieme al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, di nominare una squadra di Governo che, al di là di alcuni tecnici nei ministeri chiave per la gestione del recovery plan, includa tutte le forze politiche presenti in Parlamento (ad eccezione del partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, che ha optato per rimanere all’opposizione) evoca quasi immediatamente la prima Repubblica e il “metodo Cencelli” di ripartizione delle posizioni di governo, funzionale a una gestione autoreferenziale e privatistica del potere e degli organi dello Stato da parte della classe politica. È un’impostazione che stride con la personalità e la storia di Draghi, e che proprio per questo, ha deluso le aspettative di chi attendeva un gruppo di soli ministri tecnici conforme allo slogan di “governo dei migliori”, indipendente e al di sopra dell’ormai screditato sistema dei partiti.
Eppure, alcuni elementi del contesto in cui ha visto la luce il nuovo Esecutivo, suggeriscono che, pur formalmente rispecchiandone il metodo, la sua composizione risponda a obiettivi che vanno in direzione opposta rispetto a quello originario del manuale Cencelli. Non la spartizione del potere per consentire a ciascuno di amministrare le proprie clientele, bensì, da un lato, indurre i partiti ad adeguarsi agli orientamenti del premier, dall’altro ridurre i loro potenziali margini di manovra nel destabilizzare il Governo.
Questa chiave di lettura sembra confermata da due aspetti. Il primo è il modo in cui Draghi ha condotto le consultazioni. Nel breve periodo in cui ha svolto i colloqui, ha mantenuto il massimo riserbo e non ha dato alcuna indicazione pubblica, sottraendosi al rischio di essere catturato nel gioco di veti, richieste e condizioni da parte delle forze politiche. Ha ascoltato i partiti e lasciato che fossero loro a schierarsi spontaneamente, esponendosi pubblicamente – vuoi per opportunità o per effettiva vocazione ideologica – a sostegno del suo Governo.
In pochi giorni si è quindi assistito a riposizionamenti volontari clamorosi, a partire dalla conversione della Lega, che ha di colpo abbandonato ogni istanza nazionalista e identitaria abbracciando l’europeismo istituzionale di cui Draghi è uno dei massimi protagonisti. Altri partiti hanno dovuto trangugiare bocconi politici per loro indigeribili: Pd e Leu, dopo settimane di arroccamento sulla linea “Conte o morte” giustificata evocando imminenti catastrofi economico- sanitarie per il Paese (come se già non fossero in corso malgrado le iniziative del Governo guidato da Giuseppe Conte) e qualche tentativo di influenzare il premier incaricato, si sono agevolmente adattati alla prospettiva di governare insieme al “male assoluto” rappresentato dalla Lega e dall’antico avversario Berlusconi, per loro simbolo della corruzione morale e materiale della seconda Repubblica.
Dal canto suo, il Movimento 5 stelle – forza parlamentare di maggioranza – si è trovato ad affrontare il suo fondamentale e finora irrisolto (almeno dal momento in cui è stato chiamato ad assumere responsabilità di Governo, nel 2018) dilemma esistenziale: rimanere coerente con la sua natura settaria fondata sulla logica di resistenza all’establishment politico-economico che trama sulla pelle dei cittadini, o rinnegarla, qualificandosi, nei fatti, come membro dell’establishment stesso.
Questa volta neanche il rito della democrazia diretta sulla piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio è servito a eludere il problema, e anzi ha contribuito a metterlo a nudo. Per una ragione semplice: nel caso dei Governi Conte, le consultazioni riguardavano il controllo dell’Esecutivo e del potere da parte del Movimento – pur con alleati opposti e incompatibili tra loro. La tormentata consultazione, prima convocata e poi rinviata da Beppe Grillo, sull’adesione al nuovo Governo ha acquisito invece per gli attivisti la valenza di referendum sulla complicità con forze e personalità che, nell’orizzonte cognitivo pentastellato, incarnano proprio il complotto dei “poteri forti” a danno della cittadinanza, a partire dall’ex banchiere centrale. L’intento di interrogare l’intelligenza collettiva della “base”, invece di renderne manifeste le enigmatiche intenzioni, sembra aver insomma in questo caso solo reso pubblica una frattura forse insanabile – e che forse si concretizzerà in una prima scissione all’interno dei gruppi parlamentari M5s – tra i fedeli alle istanze ideologiche originarie del Movimento, e le esigenze concrete di esercizio del potere di leader tuttavia orfani di un’identità politica da proporre agli elettori, al di la del vago e astratto riferimento al “bene comune”.
Chi in un modo, chi in un altro, al termine delle consultazioni, i partiti che hanno aderito al progetto di Draghi si sono insomma esposti pubblicamente così tanto da rendere molto difficile tornare sui propri passi. Stando fermo, ascoltando e lasciando fare, nonostante la complessità del quadro politico, il premier incaricato ha ottenuto un consenso parlamentare spontaneo adeguato a consentirgli di sciogliere la sua riserva.
L’altra considerazione che può essere fatta sulle nomine di Draghi e Mattarella riguarda l’effettiva operatività del Governo. Escludere le forze politiche avrebbe comportato un rischio elevato di vedere le iniziative dell’Esecutivo vanificate o stravolte nel corso dell’iter parlamentare, in particolare nelle lunghe e macchinose negoziazioni che si consumano durante il passaggio nelle commissioni. Un Governo di soli tecnici sarebbe stato con ogni probabilità alla mercé di un Parlamento eterogeneo e ormai scarsamente o per nulla rappresentativo degli orientamenti politici prevalenti nel Paese, divenuto teatro di scelte tattiche dettate più da opportunità e esigenze di potere contingenti che dall’accountability dei partiti nei confronti dei propri elettorati. In un quadro politico così deteriorato il premier si sarebbe trovato facilmente sprovvisto di mezzi per dare continuità alla propria azione, esclusa forse la minaccia di dimissioni, la quale tuttavia, com’è noto, è efficace solo una sola volta e come extrema ratio: la seconda non è già più credibile.
Il coinvolgimento di (quasi) tutte le forze politiche in un Esecutivo di “salvezza nazionale”, pur con specifici obiettivi – l’uscita dalla pandemia e l’impiego delle risorse finanziarie del fondo Next Generation Eu destinate all’Italia – che tuttavia implicano iniziative di impatto strutturale per l’economia e la società italiana, presenta rischi e opportunità per il nuovo premier. L’opportunità principale risiede nell’aver trasferito il confronto con le forze politiche sul terreno ben delimitato dai confini giuridici dell’articolo 95 della Costituzione, che definisce il mandato, con connesse prerogative e responsabilità, del presidente del Consiglio e dei ministri.
Draghi ha sempre sottolineato con energia la conformità al mandato in ogni decisione presa alla guida della Bce, in particolare quelle adottate nelle circostanze più difficili e in un contesto di forti opposizioni e pressioni, ed è plausibile che seguirà lo stesso approccio anche nell’orientare l’azione dell’Esecutivo. In pratica, ciò significa che le forze politiche saranno obbligate a confrontarsi preventivamente e nel merito con il premier su ogni dossier, e se quest’ultimo riuscirà a far prevalere la sua linea, esercitando il proprio mandato costituzionale e la propria competenza e autorevolezza, ne saranno corresponsabili. Il che dovrebbe ridurre notevolmente il rischio che le iniziative del Governo vengano affossate o snaturate nel corso dell’iter parlamentare dagli stessi partiti.
D’altronde adottare questa strategia implica, per lo stesso ex banchiere centrale, ingaggiare un confronto molto impegnativo e in prima persona con il sistema balcanizzato della politica italiana, incapace ormai da tempo di produrre, per tutti i protagonisti, i requisiti minimi di rispetto e fiducia reciproca necessari ad avviare una qualsiasi forma di cooperazione costruttiva per gli interessi della comunità. Il rischio per il premier di fallire e essere sopraffatto dalla conflittualità tra i partiti italiani e dalle radicate resistenze di interessi particolari è senza dubbio molto elevato. La scommessa di Draghi è innanzitutto politica e consiste nel ripristinare condizioni adeguate di ragionevolezza fiducia e credibilità tra i soggetti che avranno comunque in mano le sorti del Paese su un orizzonte molto più lungo della sua permanenza a Palazzo Chigi. (Public Policy)
@leopoldopapi