di Carlo Stagnaro
ROMA (Public Policy) – Parafrasando uno slogan di fine anni novanta (ok, boomer!) viene da chiedersi perché dedichiamo l’80 per cento del tempo a parlare dei vettori energetici che soddisfano il 20 per cento dei consumi e solo il 20 per cento del tempo a discutere del restante 80 per cento del fabbisogno. Il dibattito sulla transizione ecologica ha una stella polare: l’elettrificazione e le tecnologie per generare energia elettrica senza emissioni di CO2, a partire dalle fonti rinnovabili. C’è una buona ragione: la produzione elettrica è relativamente facile da decarbonizzare. Già oggi, in Italia, le fonti rinnovabili coprono più del 40 per cento dell’elettricità immessa in rete. In Francia, grazie al nucleare, si sale oltre il 70 per cento, mentre i paesi ricchi di acqua e non ostili all’atomo (come la Svezia) praticamente tutta l’energia elettrica è senza emissioni.
Il problema è che l’energia elettrica – che sicuramente svolge un ruolo centrale nella società moderna e digitalizzata – costituisce solo una piccola fetta dei consumi energetici totali. In Europa, in media, essa soddisfa un quarto dei consumi energetici totali; in Italia qualcosa meno. Cosa c’è nel resto? Principalmente i prodotti petroliferi – cioè i combustibili liquidi – che in molte attività, a partire dai trasporti, sono difficilmente sostituibili. Magari lo saranno in un futuro non lontano; ma oggi non è così. A questi si aggiungono svariati processi industriali in cui i combustibili fossili sono impiegati per usi non energetici, e anche lì appaiono complicati da rimpiazzare.
Ora, è vero che proprio l’elettrificazione costituisce uno degli strumenti cardine di qualunque strategia di abbattimento delle emissioni. In molti casi – dalla mobilità privata al riscaldamento con le pompe di calore – l’utilizzo di strumenti alimentati dall’energia elettrica comporta sia una riduzione dei consumi (perché la conversione di energia elettrica è più efficiente) sia una riduzione delle emissioni (perché l’elettricità è più pulita). Ma non sempre ciò è possibile: vi sono dei limiti alla diffusione dell’elettrificazione che dipendono da circostanze specifiche (per esempio in alcuni edifici può essere complesso sostituire gli impianti a gas con altri elettrici). Inoltre, a tecnologia esistente, taluni processi semplicemente non possono essere elettrificati: pensiamo al trasporto aereo o alle industrie pesanti, non a caso chiamate “hard to abate”.
In altre parole, l’elettrificazione e la decarbonizzazione dell’elettricità sono un tassello cruciale. Ma non sono l’unico tassello né necessariamente il più importante: se vogliamo raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 dobbiamo chiederci quali strumenti possiamo utilizzare per azzerare le emissioni nette in quell’ampia area degli usi finali nei quali l’energia elettrica non è, realisticamente, utilizzabile nel futuro prevedibile. È qui che si innesta la riflessione sui biocarburanti, il biometano, l’idrogeno e tutti gli altri vettori energetici che possono essere impiegati per soddisfare quelle esigenze di riscaldamento, di trasporto o di processo industriale che oggi non siamo in grado di elettrificare.
Ci sono mille ragioni per cui l’elettricità appare centrale in tutti gli scenari energetici. Ma dire che l’elettricità e le rinnovabili (e il nucleare) stanno al primo posto non significa negare che vi siano anche tante altre necessità da soddisfare e che tali necessità possano essere affrontate con tecnologie differenti e non necessariamente elettriche, che vanno studiate, sviluppate e perseguite. Va benissimo, quindi, riconoscere l’importanza dell’energia elettrica, decarbonizzarne la generazione ed elettrificare tutto quel che si può. Facciamo in modo che quel 20-25 per cento diventi una fetta più ampia della torta e facciamo in modo che, al suo interno, le rinnovabili e le altre fonti carbon-free raggiungano le percentuali più alte. Ma non dimentichiamoci del restante 75-80 per cento. (Public Policy)
@CarloStagnaro