di Carlo Stagnaro
ROMA (Public Policy) – Il concetto della sicurezza energetica viene spesso affiancato a quello dell’indipendenza. Ma è davvero così? La sicurezza energetica è definita come la disponibilità di energia senza interruzioni, a un prezzo accessibile e in modo sostenibile. La tentazione di sovrapporre questi requisiti (continuità, economicità e sostenibilità) con l’autosufficienza è forte e richiamata un po’ da tutti. Chi auspica un sistema energetico 100 per cento rinnovabili non manca mai di sottolineare che in tal modo potremmo generare tutta l’energia di cui abbiamo bisogno. Gli avversari replicano che dovremmo comunque importare le tecnologie, cadendo dalla padella nella brace. Per questo – aggiungono – occorre sfruttare al massimo le risorse nazionali di idrocarburi, che però (controbattono gli altri) non sono né infinite, né sufficienti a soddisfare per un certo numero di anni l’intero fabbisogno nazionale.
La realtà è che quasi nessun paese al mondo è del tutto indipendente dal punto di vista energetico (con poche eccezioni di nazioni estremamente ricche di risorse e tipicamente poco popolose). Di fatto, l’unico paese di grandi dimensioni e con un’economia moderna, e contemporaneamente caratterizzato da un elevato grado di indipendenza energetica, sono gli Stati Uniti. Ma anche in quel caso si tratta di un’evoluzione relativamente recente: sebbene “energy independence” sia stato uno slogan della politica statunitense sin dai tempi di Richard Nixon (o anche prima), è solo nel 2019 che la produzione domestica di energia ha pareggiato i consumi. Perfino dietro a questi dati si nasconde una realtà più complessa: nel 2022, gli Usa hanno esportato più energia di quanta ne abbiano importata, ma hanno esportato soprattutto gas e importato soprattutto petrolio greggio.
La strada per l’autonomia energetica, negli Usa, ha avuto due componenti: la dotazione di risorse naturali e un quadro giuridico estremamente favorevole al loro sfruttamento. La rivoluzione dello shale gas ha fatto lievitare la base di riserve statunitensi, rendendo tecnicamente sfruttabili giacimenti che prima non lo erano. Ma nulla di tutto ciò si sarebbe trasformato in produzione effettiva se non ci fosse stato, da un lato, un contesto sensibile, con le varie amministrazioni che per lunghi anni hanno rilasciato le autorizzazioni senza fare troppe storie; e, dall’altro, una cruciale differenza nel modo in cui le risorse sono trattate. Nella maggior parte del mondo (inclusa l’Europa) le risorse del sottosuolo sono di proprietà dello Stato e possono pertanto essere sfruttate solo dietro il rilascio di una concessione apposita. Negli Usa, esse sono invece di proprietà di chi possiede il terreno e questo determina un forte incentivo da parte delle comunità locali a non mettersi di traverso. È stata proprio questa legislazione (che esiste in pochi altri paesi al mondo, tra cui il Cile) a spiegare il boom del settore petrolifero statunitense e il fiorire di una pluralità di produttori privati, senza che vi sia alcun colosso statale (lo spiega bene Rob Bradley nella sua monumentale opera “Oil, Gas and Government”, purtroppo ormai fuori catalogo).
L’Unione europea si trova in una situazione ben diversa: nel 2021 abbiamo importato circa il 55 per cento del nostro fabbisogno energetico, con una dipendenza particolarmente elevata nel caso del gas. Non solo la disponibilità di risorse è inferiore, ma anche l’accettabilità sociale della produzione di petrolio e gas è andata calando nel tempo. Molti paesi hanno addirittura dichiarato delle moratorie sullo shale gas (inclusa l’Italia, che però gas di scisto non ne ha). Ciò trova riscontro nell’apparentemente inarrestabile declino della produzione di fonti fossili, che tra il 1990 e oggi è calata tra la metà e i due terzi (a seconda che si parli di carbone, petrolio o gas).
Probabilmente un atteggiamento differente avrebbe reso il nostro sistema energetico più resiliente (per usare un termine alla moda). Ma, con questi numeri, è pressoché impossibile puntare all’indipendenza, anche considerando il nucleare e le rinnovabili (il cui contributo è considerevolmente cresciuto nel tempo) come fonti autoctone. D’altronde l’indipendenza energetica a volte può essere addirittura un elemento di fragilità: basta rileggere le cronache del Regno Unito durante gli anni Ottanta, quando il paese venne messo in ginocchio dagli scioperi dei minatori. Non è esagerato dire che una delle ragioni che determinarono le profonde riforme inglesi di liberalizzazione e privatizzazione nel settore dell’energia fu proprio la volontà di ridurre il potere di ricatto dei sindacati dei minatori, come spiegò lucidamente Nigel Lawson, segretario dell’Energia e poi cancelliere dello scacchiere nei Governi di Margaret Thatcher.
La migliore teorizzazione di come garantire la sicurezza energetica la dobbiamo a un altro illustre leader britannico, Winston Churchill. Quando era Primo lord dell’ammiragliato, durante la prima guerra mondiale, egli comprese che la garanzia degli approvvigionamenti di petrolio costituiva un elemento di superiorità strategica della flotta inglese: “La sicurezza e la certezza del petrolio stanno nella varietà e nella varietà soltanto”. Avremmo dovuto impararlo cent’anni fa; nel 2022 abbiamo avuto un’occasione di ripasso; adesso sarebbe il momento di prendere sul serio questa lezione. (Public Policy)
@CarloStagnaro