ROMA (Public Policy) – Con l’illustrazione del provvedimento da parte del relatore (il senatore M5s Francesco Mollame) è cominciato lo scorso 19 marzo in commissione Agricoltura al Senato l’esame della pdl Bio (“Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico”), già approvata in prima lettura dalla Camera l’11 dicembre scorso. Da Forza Italia è arrivata la richiesta di avviare un ciclo di audizioni, accolta dal presidente della 9° commissione Gianpaolo Vallardi (Lega).
Il testo – che è il risultato dell’unificazione di diverse proposte di legge Pd, M5s e Lega – definisce la produzione biologica come attività di interesse nazionale con funzione sociale e ambientale. Mentre il metodo di agricoltura biodinamicaviene equiparato al metodo biologico nei limiti in cui il primo rispetti gli specifici disciplinari di metodo e i requisiti previsti a livello europeo per produrre biologico.
Tra le misure più rilevanti della pdl ci sono: l’istituzione del marchio biologico italiano, volto a caratterizzare i prodotti biologici ottenuti da materia prima italiana contraddistinti dall’indicazione ‘Biologico italiano’; la disciplina il Piano d’azione nazionale per la produzione biologica e l’introduzione del Piano nazionale per le sementi biologiche; l’istituzione presso il Mipaaft del Fondo per lo sviluppo della produzione biologica e del Tavolo di filiera per i prodotti biologici.
La pdl contiene poi un’ampia disciplina sui distretti biologici. Fatte salve l’inclusione dei distretti biologici e dei biodistretti tra i distretti del cibo – ha spiegato il relatore nella sua illustrazione – si stabilisce che costituiscono distretti biologici i sistemi produttivi locali, anche di carattere interprovinciale, a spiccata vocazione agricola, con una significativa produzione con metodo biologico. Si caratterizzano per un’integrazione tra attività agricole ed altre attività economiche e per la presenza di aree paesaggistiche rilevanti. Con decreto ministeriale sono disciplinati i requisiti per la costituzione dei distretti; con altro decreto interministeriale sono poi definiti gli interventi per ridurre gli impatti antropici sul suolo, sulle acque e nell’atmosfera causati da impianti inquinanti. I distretti biologici promuovono la costituzione di gruppi di operatori per realizzare forme di certificazione di gruppo.
La pdl interviene anche in materia di organizzazioni interprofessionali nella filiera biologica, finalizzate al riordino delle relazioni contrattuali, aventi il compito di coordinare le modalità di immissione dei prodotti sul mercato e di redigere contratti tipo per la vendita di prodotti: con decreto del ministro delle Politiche agricole può essere riconosciuta una sola organizzazione interprofessionale a livello nazionale o della medesima circoscrizione economica. Tra i requisiti per il riconoscimento c’è quello di rappresentare un determinato valore percentuale dei prodotti della filiera biologica nazionale o della circoscrizione di riferimento. Le organizzazioni interprofessionali possono richiedere al ministero che alcuni accordi siano resi obbligatori anche nei confronti dei non aderenti alla stessa organizzazione, sulla base di alcune condizioni.
Si prevede poi che gli agricoltori che producono varietà di sementi biologiche iscritte nel registro nazionale delle varietà da conservazione, nei luoghi dove tali varietà si sono sviluppate, hanno diritto alla vendita in ambito locale e possono procedere al libero scambio delle stesse. Per le sementi non iscritte ad alcun registro ed evolute e adattate nell’ambiente di coltivazione è riconosciuto il diritto di vendita diretta agli altri agricoltori in ambito locale in una quantità limitata, nonché il diritto al libero scambio.
La pdl aveva ottenuto forti critiche da parte di un gruppo di oltre 200 agricoltori, agronomi e scienziati che a gennaio hanno inviato una lettera alla 9a commissione di Palazzo Madama per chiederne il ritiro e la riproposizione dopo una modifica dell’impianto e dei contenuti. Secondo i sottoscrittori, la proposta “non affronta i gravi limiti, anche in prospettiva futura, dell’agricoltura biologica in termini di efficienza produttiva e di impatto ambientale per unità di derrate prodotte, evitando di allinearsi ai principi che tengono conto dell’interesse generale dell’agricoltura nazionale”. Inoltre “non viene affrontato il nodo dei controlli delle produzioni bio, controllo attualmente lacunoso se non poco affidabile a causa del rapporto anomalo esistente tra valutatori e produttori e che vede il controllore pagato dal controllato”. Gli organismi di controllo sono definiti dai sottoscrittori come “soggetti privati delegati dal ministero e pagati dal controllato per emettere una certificazione di processo (non di prodotto) a fini meramente commerciali”.
Ricordando come i 13 milioni di ettari di superficie agricola utile coltivati in Italia non bastino all’autosufficienza alimentare, producendo solo il 70% del fabbisogno nazionale, gli esperti firmatari ritengono che l’attuale formulazione del ddl, basata sull’idea di porre il bio al centro del sistema agro-alimentare italiano, aumenterebbe la dipendenza dall’estero, data la minore efficienza produttiva del biologico, oltre a non affrontare “i gravi limiti – anche in prospettiva futura – dell’agricoltura biologica in termini di impatto ambientale per unità di derrate prodotto”. Nel documento si mettono in evidenza: la scarsa produttività del biologico, con cali di resa in pieno campo che vanno dal 20 al 70% a seconda della coltura, l’elevato utilizzo di pesticidi e fitofarmaci, il sensibile aumento delle terre per la coltivazione, perché per unità di prodotto il bio comporta un maggior impatto ambientale, l’aumento dei prezzi al consumo generalizzato, la denigrazione che si fa dell’agricoltura tradizionale.
Inoltre, si legge nella nota critica verso il settore bio, quest’ultimo è un settore più che modesto: “Nel 2017 i dati consuntivi evidenziano che nell’ultimo anno l’incidenza del biologico sull’agroalimentare totale è salita dello 0.2%, passando dal 2,8 a 3% Si tratta quindi di un settore di debole appeal, nonostante l’ingente marketing, e a tutt’oggi non rappresentativo dell’agricoltura e del mercato alimentare italiano”.
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