ANALISI – (di Aroldo Barbieri) Viene spesso ripetuto che l’Italia deve recuperare lo spirito del dopoguerra, quella voglia di crescere che le ha permesso di trasformarsi da un Paese povero, agricolo, distrutto dal conflitto e dalla guerra civile che ne è stata la conclusione, in una potenza industriale. È chiaro che quello spirito è irrecuperabile, per molti motivi, ma è altrettanto evidente che senza la voglia di rimettersi in gioco, a tutti i livelli, il declino o al massimo un debole recupero con scarsa occupazione aggiuntiva, sono la prospettiva più probabile.
L’Italia, lo dice l’Europa, continua a perdere di competitività, Lombardia compresa; i nostri giovani, secondo Unioncamere, si impegnano fino a un certo punto, un po’ perché reagiscono così, razionalmente, alla mancanza di prospettive, molto in quanto non sono abituati al sacrificio, a sfidare il futuro. Il “volli, volli sempre, fortissimamente volli” di Vittorio Alfieri non fa parte del bagaglio dei più. Così come la filosofia di vita dominante nella penisola, da circa quarant’anni, è quella del “fin che la barca va”. Cosa ha spento negli italiani la voglia di combattere, di primeggiare, di crescere? Non è questione di Dna. La prova migliore sta nel fatto che quando operano all’estero sono sempre fra i primi.
Il motivo principale sta nell’appiattimento, nella penalizzazione del merito, nella redistribuzione delle risorse piuttosto che nella creazione di nuove opportunità. Una filosofia del tutti uguali a fine mese (la livella dipende soprattutto da imposte, tasse e ticket per alcuni, e da evasione degli obblighi per altri) meritevoli o meno, onesti o meno, impegnati o furbi parassiti, che penalizza l’impegno e premia una classe dirigente spesso aliena dalla responsabilità e un “popolo minuto” uso a qualsiasi furbizia pur di “sbarcare il lunario” al meglio. La vittima in questo schema è il lavoratore medio, che paga le tasse, che risparmia, che si compra la casa con il mutuo, che lesina per far studiare i figli. Una tipologia sempre meno numerosa, anche e soprattutto per via delle trasformazioni socioeconomiche, che la crisi, in cui siamo ancora immersi, ha accentuato.
Se il presidente Enrico Letta ha detto un po’ ottimisticamente che “la ripresa è a portata di mano”, è sicuro che una crisi di Governo complicherebbe le cose, l’aggancio alla ripresa altrui. Lasciando da parte le faziosità politiche in cui la nostra Italia è fra i primi al mondo, la questione “prima casa” è centrale nella disputa politica, ma non solo. Da una parte si propone di esentare dall’imposta patrimoniale la casa di abitazione. È sicuramente nella realtà italiana cosa buona e giusta e non solo per motivi economici. Ma le risorse sono poche e allora altri reputano giusto far pagare solo quelle di maggior valore o i proprietari più agiati: un 20-30% del totale. Ma come fissare il limite di valore o di agiatezza? Il pericolo è che il principio sia sacrificato a far tornare i conti, come spesso è avvenuto in passato. Ma questo è un altro aspetto della debolezza italiana: il fine, far quadrare i conti, prevale sui mezzi adottati.
Ma, si dice, la coperta è corta: c’è da scongiurare l’aumento dell’Iva, salvare un’altra quota di “esodati”, finanziare la cassa integrazione in deroga (per quanto ancora si fingerà che vivano attività più che defunte per tutelare la “pace sociale”?). Sarebbe opportuno poi alleggerire le tasse sulle transazioni immobiliari, agevolare fiscalmente gli affitti a canone “concordato”. E allora c’è chi è tentato di far quadrare i conti penalizzando ancora le “seconde case”, quelle accatastate s’intende, perché quelle abusive non pagano, già oggi bastonate pesantemente (perché considerate in blocco un lusso) da imposte, tasse e canoni raddoppiati, magari facendo pagare loro anche l’imposta sui redditi, anche se non producono reddito.
Se negli Usa l’uscita dalla crisi è stata significata dalla fine della caduta delle quotazioni degli immobili un significato l’avrà pure. Finché le case, ovvero il salvadanaio dagli italiani, perderanno di valore, scordiamoci la ripresa, perché l’orizzonte viene percepito come buio. Potremo per “tirare a campare”, per arrivare a domani, in nome di un egualitarismo solo apparentemente equo, saccheggiare anche la casa, dopo i salari (con l’ingresso nell’Euro a 1936,27 lire) e le pensioni. Dalla crisi si esce rimuovendone la cause (a quando una rivoluzione “liberale” anticaste) non appozzando alle ultime riserve, che risalgono in gran parte al miracolo economico. E poi cosa impedisce di anticipare a fine 2013 la “service tax” per dare risorse ai Comuni in relazione ai servizi erogati ai cittadini tutti, troppo spesso a prezzo “politico”? ABA