Twist d’Aula – La vera partita del Consiglio Ue

0

di Massimo Pittarello

ROMA (Public Policy) – Appuntamento tanto complesso quanto determinante. Al Consiglio europeo straordinario si arriva con pareri divergenti su come rispondere all’Inflation Reduction Act varato dagli Stati Uniti. Il quale, tra l’altro, giunge a corollario di una serie di piani di investimento made in Usa che totalizzano in totale quasi 2.000 miliardi. Per cui attenzione non confondere le cose piccole con le grandi. Tuttavia, dietro la cortina fumogena di certe uscite fuorvianti sulla “concorrenza sleale degli ammmericani”, sul tavolo europeo ci sono due temi, tra di loro intrecciati: uno di strategia industriale e l’altro di posizionamento dell’Italia, che sicuramente ci arriva col fiato corto.

La bozza delle conclusioni del Consiglio europeo uscita lunedì è quantomeno “ecumenica”. Vi si legge di procedure più “snelle, semplici, rapide” … eccetera… Difficile arrivino soprese perché sui “dettagli” non c’è accordo. In primis, sui soldi e su come raccogliere i 350 miliardi di euro necessari per stare al passo con gli Stati Uniti. Attraverso nuovo debito comune? Improbabile. Dirottare 250 miliardi da Recovery Fund e RePowerEu e altri 100 miliardi dai fondi InvestEu e per l’Innovazione? Complicato. Allentando le regole sugli aiuti fiscali e permettendo ai vari Stati di concedere margine d’imposta alle imprese (così da superare il coinvolgimento diretto della burocrazia)? Possibile, ma potenzialmente esplosivo.

Un “liberi tutti” sui sussidi pubblici aprirebbe infatti una gara di stanziamenti pubblici che non sarebbe ad armi pari. E che l’Italia, visto l’alto debito pubblico e la bassa disponibilità di risorse, perderebbe in partenza. Per avere un’idea, secondo la Commissione Ue, dall’inizio della guerra in Ucraina la Germania ha usato il 53% dei sussidi comunicati a Bruxelles, la Francia il 24%. Quella italiana è dunque una posizione scomoda. Anche perché a Washington a trattare con i segretari al Commercio e al Tesoro, Raimondo e Yellen, sono andati i ministri delle finanze di Francia e Germania, Le Maire e Habeck, mentre era assente quello italiano. E c’è anche da rilevare un rinnovato asse franco-tedesco, rivisitato con la presenza della Spagna, a partire dai temi dell’energia e della cooperazione militare, da quale al momento l’Italia è esclusa.

Il nostro Paese è oltretutto sospettato di cercare ulteriori finanziamenti a basso costo e garantiti da altri (sul modello del Pnrr). Ed è malvisto poiché l’unico a non aver ancora ratificato il Mes, bloccandone l’utilizzo per chi volesse attivarlo. Insomma, ci sarebbe da stare attenti perché si rischia di finire all’angolo su un tema, quello degli aiuti di Stato e della concorrenza, che a livello internazionale può fare la differenza in termini di competitività. E se consideriamo che un terzo del Pil nostrano arriva dall’export, che continua a crescere da anni e nel 2023 supererà quota 600 miliardi, comprendiamo la posta in gioco. E anche quanto sarebbe sbagliato rifugiarsi nel protezionismo.

Tuttavia, su un tema così strategico bisogna anche rendersi conto quella di Biden non è concorrenza sleale, ma un ulteriore tassello di Washington per sostenere lo sviluppo industriale e la transizione verde. A questa che potrebbe chiamarsi rinnovata voglia di politica industriale, l’Ue non può che adeguarsi se non vuole rimanere indietro. E se intende liberarsi dalla dipendenza dall’estero in alcuni settori chiave (Cina per componenti tecnologiche o pannelli solari, Russia per gli idrocarburi). Qualcosa di simile, per dire, era accaduto con i due “Chips Act” (prima quello statunitense e a seguire quello europeo) che mirano ad emanciparsi dalle forniture cinesi, bloccate da Pechino nel post Covid, con pesanti ripercussioni sulle nostre economie.

Insomma, se una volta c’era la locomotiva (e con il treno anch’esso un mito di progresso) oggi, mutatis mutandis, è sempre l’industria la chiave per un futuro ecologico e prospero. Alla faccia della decrescita, infatti, la risposta alla transizione green può arrivare solo dallo sviluppo della manifattura (digitalizzazione, biocarburanti, batterie, nuovi materiali, etc). Troppo a lungo l’Ue ha penalizzato le condizioni del fare impresa distribuendo fondi per comprare pannelli solari made in China. E sarà solo un caso, ma dal 1998 al 2022 il Pil Usa è cresciuto del 60%, quello europeo di circa il 35%, quello italiano poco sopra al 5%. Noi vediamo nella partita del Green Deal Industrial Plan un momento di scontro con i nostri vicini. I quali, per quanto ostici e diffidenti, non sono i nostri veri competitor. Se in risposta al piano Usa non si trovasse una soluzione unica e ognuno andasse per i fatti propri, i vari Paesi non avrebbero peso specifico. E noi saremmo quelli messi peggio. (Public Policy)

@m_pitta

(foto cc Palazzo Chigi)