Twist d’Aula – Nuovo Patto di stabilità, un concordato fallimentare preventivo

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di Massimo Pittarello

ROMA (Public Policy) – Quello che esce dalla porta rientra dalla finestra. Leggermente diverso nella forma e apparentemente migliorato, nella sostanza più vincolante. La Commissione ha delineato il quadro del nuovo Patto di stabilità da discutere nel dettaglio a partire da inizio 2023 cosicché possa entrare in vigore già nel 2024. Presentato come “molto più flessibile” poiché non si prenderà più in considerazione il deficit pubblico calcolato anno su anno, in realtà lo è solo esteriormente. In realtà assomiglia ad un concordato preventivo (semi) fallimentare sui conti pubblici. Un negoziato a cui seguono scadenze, anche se di lungo periodo a cui seguono impegni e obblighi spalmati su più anni da cui potrebbe essere più difficile derogare.

La cornice del nuovo Patto prevede che venga abbandonato il meccanismo ragionieristico della riduzione del debito di un ventesimo all’anno per la quota eccedente il 60% del Pil (per noi vorrebbe dire partire con un taglio monstre di 50 miliardi). Una regola, d’altronde, rimasta sempre inattuata. Il rapporto del 3% invece resta, ma si potrà raggiungere in un orizzonte temporale che va da 4 a 7 anni. Ma con dei vincoli. Stringenti. Ogni Paese dovrà concordare con l’Europa il proprio piano di aggiustamento, tenuto conto delle priorità e delle proprie specifiche. In pratica un percorso tailor-made in i Governi dovranno fissare sia i tetti massimi di spesa che le riforme e gli investimenti. Come avviene per il Recovery (con la differenza però che i soldi da spendere sono solo nostri e non anche europei) ci sarà poi un controllo passo passo. Una scelta che potrebbe legare le mani agli Esecutivi italiani.

Anche in caso di congiunture negative con questa nuova impostazione le maggiori spese eccezionali dovranno essere “ammortizzate” in più anni. Inoltre il metro di riferimento non è più l’avanzo strutturale, che spesso è stato interpretato in modo non univoco, ma la spesa pubblica primaria (al netto della spesa per interessi). A leggere la NaDef, comunque, emerge come questa sia destinata ad aumentare. I rinnovi contrattuali porteranno al +6,6% per le retribuzioni pubbliche, +2,9% per le prestazioni sociali, oltre ad un +3,9% della spesa pensionistica. Senza contare un +29,3% delle uscite correnti per via delle risorse usate contro il caro energia. Non sarà facile rientrare da queste spese, anche se si tratta di un quadro tendenziale e non programmatico. Insomma, usare la spesa primaria come criterio potrebbe essere davvero rischioso.

A guardare al passato sono molteplici i casi in cui, per ragioni diverse tra loro, si è andati oltre gli impegni assunti con Bruxelles. Recentemente è accaduto per cause strutturali, come crisi energetica e pandemia. Ma anche in anni precedenti, per esempio in occasione del terremoto. Tra il 2014 al 2019 abbiamo speso circa 50 miliardi in più di quanto previsto. Altre volte, come quando i grillini esultarono dal balcone di Palazzo Chigi per qualche decimale in più (che poi del 2,04% invece dell’annunciato 2,4%) si è trattato di motivazioni esclusivamente politiche. Alla fine finora l’abbiamo sfangata anno su anno. Quell’era potrebbe essere conclusa. Il Governo Meloni ha concordato con Bruxelles un aumento del deficit dal 3,4% indicato a “legislazione vigente” fino al 4,5% (qualcuno aveva detto no allo scostamento di bilancio?). Questo, sommato ai margini aggiuntivi creati da un andamento superiore alle aspettative del ciclo economico, vuol dire almeno 21 miliardi in più. Ecco, quello del 2023 potrebbe essere l’ultimo treno a disposizione per forzare la mano. (Public Policy)

@m_pitta

(foto cc Palazzo Chigi)