di Massimo Pittarello
ROMA (Public Policy) – Ci sono i problemi della politica politicante, con le caselle dei ministeri da riempire e gli equilibri nella maggioranza da trovare. E poi ci sono i problemi dell’economia, con il nuovo Governo che si troverà alle prese con questioni impellenti, gravi e con poco margine di manovra, a partire dai rincari dell’energia. E li saranno scelte quasi obbligate per il poco tempo e le poche risorse a disposizione. Ma poi ce ne sono altri e in particolare due, le pensioni e il reddito di cittadinanza, su cui si potrà misurare la cifra del nuovo corso, su cui, soprattutto, potremo giudicare la linea di politica economica del nuovo Governo, il primo che dal 2008 ad oggi è figlio di una chiara indicazione delle urne. E vediamo che risposte darà, se manterrà le promesse, se ci sarà un cambio di marcia rispetto agli Esecutivi precedenti.
Comunque ci sono due mesi di tempo e poi, senza nuovi interventi, dal primo gennaio 2023 scade Quota 102 e si torna alla legge Fornero nella sua pienezza. Qualcosa che, stando al programma di centro-destra (anzi, destra-centro), bisogna evitare. Su questo Meloni si trova tra due fuochi. Da un lato ci sono e ci saranno le richieste di Salvini (e dei sindacati) di varare Quota 41, che potrebbe essere agganciata ad una soglia di età. Dall’altra c’è un problema demografico che mina la sostenibilità del sistema. Quando fu introdotta la legge Fornero, nel 2012, l’Italia spendeva per le pensioni 249,5 miliardi di euro. Secondo la NaDef, tra tre anni saremo a 349,8 miliardi: 100 miliardi in più in 10 anni, nonostante la riforma. Questo perché siamo un Paese anziano (il secondo al mondo) e, visto il tasso di fecondità più basso d’Europa (1,3 figli per donna) con una popolazione in stabile diminuzione. Se oggi ci sono tre lavoratori per pensionato, secondo l’Ocse, nel 2050 ci potrebbero essere più pensionati che lavoratori. E, solo per avere un’idea, per via dell’inflazione le uscite previdenziali l’anno prossimo dovrebbero aumentare del 7,9%.
È ovvio che il nostro sistema a ripartizione così fatica a reggere. Se pure la legge Fornero fu introdotta con qualche sbavatura e diverse iniquità, l’obiettivo era allineare il sistema alla futura struttura demografica, sociale ed economica. Spesso presentati come interventi riparatori e a tutela degli “esodati”, dal 2012 ad oggi sono invece arrivate una decina di deroghe che hanno messo dentro di tutto e che hanno contribuito ad un aumento della spesa pensionistica del 19,2%, 4,6 punti in più dell’inflazione. Ad oggi, a leggerla in prospettiva, quella delle pensioni è una questione insieme generazionale e politica: da un lato finora si è prevalentemente tutelato chi è oggi prossimo alla pensione, che poi è anche il serbatoio più ricco di voti. Dall’altra tanto si è parlato ma poco si è fatto per tutelare “i giovani”. Vedremo se Meloni avrà attenzione a quell’area che si ritrova nel nome del movimento che una volta guidava (il Fronte della gioventù). Vedremo se invece rimarrà sulla linea tenuta fin qui da tutte le forze politiche e a cui la spingono sia Salvini con Quota 41 che Berlusconi con le pensioni a 1.000 euro.
Ma forse la dicotomia è ancora più acuta sul reddito di cittadinanza. La volontà annunciata di Fratelli d’Italia ne prevedeva era l’abolizione, motivo aggiuntivo per cui aziende e imprenditori hanno votato Meloni. Tuttavia sulla misura si sono levati gli scudi dei cattolici, dei 5 stelle, dei sindacati. E vedremo cosa dirà Salvini, che di quel provvedimento figlio del Governo gialloverde è genitore insieme ai grillini. In ogni caso, se si voleva istituire uno strumento di welfare, il RdC ha mostrato delle crepe. Se si voleva allargare la base occupazionale e rilanciare l’economia, è andata anche peggio. Da un lato il RdC non ha “abolito la povertà”, visto che in tre anni e mezzo è aumentata di 500mila unità. Anzi, nonostante una spesa di 23 miliardi le persone in povertà assoluta sono salite a 5,6 milioni, con i percettori del RdC che però sono 2,6 milioni: il che vuol dire che circa 3 milioni di persone sono fuori. E la misura è costruita male, sia per via delle frodi che per sperequazioni nella distribuzione. E poi perché non tiene conto delle differenze territoriali visto che 780 euro a Siracusa non hanno lo stesso valore che a Milano.
Comunque il RdC ha fallito anche l’altro obbiettivo, quello occupazionale. La base occupazione non è stata allargata, con i posti vacanti sono aumentati del 35% e la parte delle politiche attive che è inesistente. Su 2,6 milioni di percettori, secondo il monitoraggio dell’Anpal al 30 giugno, solo in 280mila hanno stipulato il Patto per il lavoro (il 10,7%). A tre anni e mezzo dall’avvio della misura non abbiamo poi un dato sull’attività svolta dai Centri per l’impiego. Nella maggioranza si vorrebbe passare la parte delle politiche attive ai Comuni, mentre nel mondo imprenditoriale si vorrebbero ingaggiare le agenzie private di collocamento accreditate. In ogni caso, se non è sbagliata una misura di welfare e di contrasto alla povertà, il RdC ha bisogno quantomeno di una revisione. Vedremo se Meloni terrà fede alla promessa di “abolire” la misura, se avrà la forza di rivederlo, come riuscirà a intervenire. O se invece lascerà sul tavolo la patata bollente. Al di là del totoministri, al di là di una manovra piuttosto stretta e obbligata, forse è da qui che cominceremo a decifrare la politica economica del primo Governo di destra della storia repubblicana. (Public Policy)
@m_pitta