di Massimo Pittarello
ROMA (Public Policy) – Come fosse un contrappasso della storia, il Governo sostenuto da tre partiti che in passato hanno – seppur con diverse intensità – chiesto l’uscita dell’Italia dall’euro oggi si ritrova ad essere un Governo TINA – There Is No Alternative. Uno slogan coniato da Margaret Thatcher (leader di quei conservatori inglesi appartenenti fino al 2021 al partito europeo Ecr oggi presieduto proprio da Meloni) ma negli ultimi anni usato dagli antieuro in modo sarcastico e un po’ complottistico per dire che quella europea era una ideologia coercitiva, perché si ripete sempre che l’euro è TINA, ma è mica vero che non ha alternative (e invece si, a meno di non volersi suicidare). Insomma, proprio una maggioranza di destra-centro ieri antieuropea si ritrova ad essere oggi come l’Europa: l’unica soluzione possibile nonostante le tante e profonde difficoltà.
Per essere come l’Europa, e per avere il placet dell’Europa, Meloni ha per mesi lavorato alla sua credibilità internazionale e istituzionale, coltivata nel rapporto con Mario Draghi, nel posizionamento prima atlantico e poi europeo, passando per interlocuzioni con il Quirinale e con il mondo imprenditoriale. Il suo viaggio a Bruxelles ne è la rappresentazione. Ciò le ha permesso di evitare veti esterni nella sua strada verso Palazzo Chigi, come invece fu per Matteo Salvini nel 2019 (o, in forma diversa, per Silvio Berlusconi nel 2011). Ha dovuto però cedere parte della libertà di azione in campo economico. Infatti, oltre alla sorveglianza dei mercati, che potrebbero punire l’Italia come hanno fatto con il Regno Unito per scelte avventate, c’è quella di Bruxelles. Che, pur rivedendo il Patto di stabilità, non mancherà di monitorare la gestione dei nostri conti pubblici. E ha l’ultima parola sia sull’erogazione dei fondi del Pnrr sia sull’uso di circa 20 miliardi di fondi europei non spesi che il nuovo Esecutivo vorrebbe usare per coprire i rincari energetici.
Tuttavia al momento la quadra sembra sia trovata, come dimostra la nomina di Giancarlo Giorgetti all’Economia o il chiaro diniego ad ulteriori scostamenti di bilancio da parte di Adolfo Urso. Certo, ciò vuol dire limitato margine di manovra in ambito economico. Una difficoltà a cui bisogna aggiungerne un’altra. Già un minuto dopo il voto Salvini ha cominciato a replicare lo schema del Governo gialloverde e di quello Draghi. Con un piede resta in maggioranza, con l’altro come fosse all’opposizione anticipa in tv, sui giornali, ma anche su Twitter e TikTok, tutte le sue richieste (inattuabili per la sostenibilità dei conti pubblici). Su questo Meloni ha concesso qualcosa, sia in termini di poltrone che di provvedimenti, ma in qualche modo ha già mosso in contropiede basandosi su un dato oggettivo: Lega e Fratelli d’Italia potranno anche essere riluttanti, ma sono obbligati a mandare giù la soluzione. Per cui sui provvedimenti, sulla cifra del limite al contante, sulle pensioni, sul Rdc e su molto altro alla fine decide lei.
D’altra parte, con gli attuali numeri parlamentari non esiste alcune “sfiducia costruttiva” che possa far nascere una maggioranza politica diversa dall’attuale. La forza in aula e nel Paese di FdI rende impossibile qualunque soluzione “di Palazzo”. Se Salvini e Berlusconi dovessero far cadere il Governo potrebbero finire nella padella di un Esecutivo tecnico o, peggio, nella brace di un ritorno alle urne. E non devono nemmeno sottovalutare l’eventuale soccorso dei centristi, con Matteo Renzi e Carlo Calenda ansiosi di spartirsi i resti di Forza Italia dopo un’eventuale uscita di scena del suo leader. Per cui, al momento non c’è alternativa. E se il potere unisce, le poltrone ancora di più. Vedremo se Salvini vorrà provare a logorare il Governo sfidando la maggioranza del suo partito. E vedremo se Berlusconi proverà ancora a mettere in difficoltà Meloni, nonostante il tutoraggio dei figli e di Gianni Letta. Finora non gli è andata benissimo. A entrambi.
La mancanza di alternative è dovuta poi al fatto che l’opposizione, anzi, “le” opposizioni sono divise e senza strategia. Già in campagna elettorale la scelta è stata quella di gridare al pericolo fascista senza presentare proposte. Adesso si persevera. È vero, con poca libertà sui conti e dovendo rincorrere le uscite di Salvini, nel primo Cdm sono state presentate proposte molto identitarie (dalla criminalizzazione dei raduni oltre le 50 persone, all’ergastolo ostativo, alla soglia del contante) ma per adesso è, appunto, piazzare bandierine identitarie. Mosse che silenziano gli alleati, blandiscono parte dell’opinione pubblica e disorientano le opposizioni che si lanciano all’inseguimento dell’agenda Meloni invece di proporre qualcosa. Se continua così, e complice un andamento dell’economia migliore del previsto, la vita del Governo si prospetta lunga. Qualcuno dice 5 anni. Chissà, le prove arriveranno con la legge di Bilancio – fisco, Quota 100, Rdc – e poi nei rapporti con l’Unione europea. Fino quel momento, e forse anche dopo, è un Governo TINA. (Public Policy)
@m_pitta
(foto cc Palazzo Chigi)