di David Allegranti
ROMA (Public Policy) – Dopo discussioni andate avanti per settimane, soprattutto per via delle candidature della società civile, il Pd ha approvato le liste elettorali per le Europee. Gli aspiranti europarlamentari civici, se eletti, potrebbero cambiare il volto pubblico del partito di Elly Schlein. Da Marco Tarquinio, ex direttore di Avvenire, a Cecilia Strada, ex presidente di Emergency. Le liste, come si capisce dalla conduzione politica di queste settimane, sono una diretta emanazione della segretaria Schlein, che ha portato all’estremo il modello che le ha consentito di diventare leader dei dem.
Eleonora Evi, ex parlamentare europea eletta per due volte con il M5s e poi eletta con Alleanza Verdi Sinistra a Montecitorio, Jasmine Cristallo, ex sardina e oggi membro della Direzione nazionale del Pd, lo stesso Tarquinio, la stessa Strada, sono l’espressione di una sinistra che sfida il Pd in casa propria e che potrebbe anche batterlo (per la gioia dei tanti sindaci scesi in campo a queste Europee), come accaduto nelle primarie di un anno fa. È appunto la stessa sinistra che ha conquistato il Pd con Schlein dopo esserne uscita, tra le polemiche, nel 2015. Nell’elenco manca solo Ilaria Salis, maestra di Monza in carcere a Budapest, che sarebbe stata perfetta se solo avesse creduto allo storytelling dell’attuale dirigenza dei Democratici; c’è però appunto anche una sinistra che continua a vedere il Pd come un avversario da battere e che non accetta compromessi. Una sinistra che magari non è rimasta troppo convinta dal primo anno di segreteria Schlein, attesa come era una rivoluzione che non c’è stata.
Durante la direzione di domenica una proposta aveva fatto sobbalzare i dirigenti del Pd: quella di mettere nel logo il nome di Schlein. Neanche Matteo Renzi era arrivato a tanto. “Il nome nel simbolo è per l’elezione monocratica, alle europee bisogna votare Pd”, ha detto Gianni Cuperlo nel suo intervento. Anche Debora Serracchiani, Peppe Provenzano e Marco Sarracino si sono espressi in maniera negativa contro una evidente deriva leaderistica, nonostante anni spesi da parte dell’attuale dirigenza a sostenere il contrario. D’accordo invece Francesco Boccia, capogruppo al Senato: “Penso che il nome della segretaria nel simbolo serva a confrontarsi con Giorgia Meloni e a garantire quel valore aggiunto che tutti le riconoscono”. Il nome della segretaria, alla fine, non è comunque entrato nel simbolo depositato lunedì pomeriggio al Viminale.
Molto duro anche Romano Prodi, che ha contestato la scelta di Schlein di candidarsi come capolista (Centro e Isole). “Quello che sta succedendo vuol dire proprio che non mi dà retta nessuno. Perché dobbiamo dare il voto a una persona per farla vincere e, se vince, di sicuro non va in Europa? Sono ferite della democrazia che piano piano scavano il fosso per cui la democrazia non è più amata”, ha detto Prodi a “la Repubblica delle idee” a Napoli. Il Professore ha specificato che il suo ragionamento “riguarda la Meloni, la Schlein, Tajani, tutti. Non è questo il modo di fare, non è questo il modo di sostenere che la democrazia è al servizio del popolo. Così il popolo non c’entra niente, si vota per uno e ci va un altro”. Sferzante anche Giuseppe Conte: “Ho chiarito da subito che nella nostra comunità non è pensabile che esibisci il tuo nome sulla scheda elettorale e non sei conseguente. Per noi questa è una presa in giro dei cittadini”, ha detto il presidente del M5s, nel cui simbolo c’è invece l’hashtag con la scritta “pace”.
Schlein però viene descritta dalle cronache come irremovibile su alcune decisioni; è convinta di aver concesso molto alla minoranza, che peraltro candida Stefano Bonaccini, presidente del Pd e leader della corrente Energia popolare, come capolista nel Nord Est.
INTANTO IN BASILICATA
Elezioni regionali sparite dai radar, soprattutto da quelli del Pd, che è stato impegnato nella composizione delle liste per le Europee. La coalizione di Vito Bardi, presidente uscente (Forza Italia), dovrebbe agilmente vincere le elezioni contro il Campo largo – Pd e M5s – di Piero Marrese. Per l’alleanza demo-populista sarebbe un’altra sconfitta, nel caso, a ulteriore dimostrazione del fatto che la Sardegna con Alessandra Todde è stato solo un caso e non un modello replicabile ovunque. (Public Policy)
@davidallegranti