Per il Direttore generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, “lo scopo originario dell’Unione bancaria è stato accantonato”. La sfiducia tra i Paesi dell’Eurozona ha definitivamente affossato l’assicurazione comune sui depositi, cioè l’obiettivo di tutti gli ultimi governi italiani, e ora alle nostre banche “è stata imposta una camicia di forza”
di Marco Valerio Lo Prete
ROMA (Public Policy) – L’obiettivo che i Paesi dell’Eurozona intendevano perseguire con la costruzione dell’Unione bancaria è stato “accantonato”. La sfiducia tra gli Stati membri della moneta unica ha affossato il completamento del progetto e ora alle banche nazionali “è stata imposta una camicia di forza”, col rischio aggiuntivo che i responsabili della vigilanza sul settore del credito – invece di tutelare i contribuenti – perseguano “una sorta di ‘integrità burocratica’”. Parole del genere, in tempi di euroscetticismo rampante, potrebbero essere attribuite d’istinto a qualche pugnace avversario dell’euro. A pronunciarle, invece, è stato lo scorso 30 agosto il Direttore generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi. Con un intervento sobriamente intitolato “Unione bancaria: risultati raggiunti e prospettive future”, in una location altrettanto sobria come la Wolpertinger Conference ospitata dall’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Rossi ha manifestato un pessimismo inusitato per Palazzo Koch rispetto alla principale riforma in corso della governance economica della moneta unica, l’Unione bancaria appunto.
Il banchiere centrale nato a Bari nel 1949 non è nuovo a riflessioni approfondite (e pubbliche) sul processo di integrazione del settore del credito a livello continentale. Un processo indispensabile, secondo la Banca centrale europea, per arrivare a “un mercato bancario più trasparente, unificato e più sicuro”. Lo stesso Direttore generale della Banca d’Italia, nel 2016, sosteneva che la crisi finanziaria nata negli Stati Uniti nel 2008 e poi propagatasi al Vecchio continente avesse fatto luce su “un ovvio legame tra le finanze pubbliche e i bilanci delle banche di un paese”. Queste ultime, disse Rossi nella primavera di due anni fa, “investono normalmente, direi fisiologicamente, una consistente parte dell’attivo in titoli pubblici del paese in cui operano, prevalentemente a scopi di gestione di liquidità; se i tassi salgono, il valore di quei titoli si riduce e le banche devono registrare perdite in bilancio; al tempo stesso esse vedono rincarare la raccolta di fondi all’ingrosso. Se una banca entra in difficoltà i mercati sospettano che essa sarà salvata dallo Stato, il che peggiora le prospettive del bilancio pubblico. Un circolo vizioso, da interrompere”.
Nasce da qui il progetto di Unione bancaria, radicato nella convinzione che “le banche europee – si disse – devono essere percepite come una questione europea, non nazionale: se una di loro entra in crisi – ha ripetuto più volte Rossi negli anni recenti – deve essere chiaro che la soluzione sarà europea, non nazionale”. Così, nel giugno 2012, fu pubblicata la prima bozza della nascente Unione bancaria; in calce c’era anche la firma di Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea. L’Unione prevedeva tre “pilastri”: un meccanismo unificato di risoluzione delle crisi bancarie nell’area euro, un’autorità unica di supervisione bancaria e uno schema unificato di tutela dei depositanti in caso di liquidazione di una banca. Come si è evoluto quel progetto è noto ai più: si decise di partire con la vigilanza unica, incarnata dal Single Supervisory Mechanism (SSM) che entrò in vigore alla fine del 2014; a ciò seguì nel 2016 l’istituzione del Single Resolution Mechanism (SRM), con annessa introduzione del principio del bail-in sulla base del quale l’onere di una crisi bancaria va sopportato dal risparmiatore/investitore e non più dal contribuente. A proposito del bail-in, Banca d’Italia ha successivamente rivendicato di averne chiesto un’applicazione limitata ai soli titoli di nuova emissione, oltre che diluita nel tempo; “obiezioni – ha ricordato una volta lo stesso Rossi – che non trovarono ascolto” perché “la pressione politica proveniente dai paesi del Nord Europa prevalse”.
Comunque sia, sempre due anni fa, Rossi osservò che all’Unione bancaria mancava ancora “un backstop pubblico temporaneo per i casi in cui l’applicazione del bail-in (…) finisca per esacerbare i rischi di instabilità sistemica”, una mancanza “non casuale”: “Riflette la chiusura assoluta di numerosi paesi europei all’ipotesi che i contribuenti del paese A paghino, anche solo temporaneamente, per la crisi bancaria del paese B”. Non solo. Anche uno dei tre “assi portanti” dell’Unione bancaria, cioè lo schema unico di tutela dei depositi, “appare di là da venire”, scriveva il banchiere centrale nel 2016, e ciò era dovuto alla “ferma opposizione di alcuni Paesi, tra cui Germania, Olanda e Finlandia” che esigono una riduzione dei rischi prima di una condivisione degli stessi. Contemporaneamente l’economista ricordava però come la Commissione europea fosse favorevole a tale schema unico di tutela, il che lo induceva a concludere speranzoso: “Le difficoltà dell’Unione bancaria sono quelle dell’intera Unione europea. Chi ne vede l’irrinunciabilità e ne ha a cuore il destino deve lavorare con determinazione a rafforzarla”.
Un anno dopo, nell’estate 2017, Rossi tornò a parlare in maniera diffusa dei “due tasselli logicamente molto importanti” che ancora mancavano all’Unione bancaria: il backstop pubblico e la garanzia comune dei depositi. Stavolta, tuttavia, il suo personale scetticismo fu più esplicito: “Ma siamo realisti: finché perdura la sfiducia reciproca in Europa quei due tasselli continueranno a mancare. E’ giusto continuare a invocarli in omaggio alla logica economico-istituzionale della costruzione, ma è per il momento solo ottimismo della volontà”. Ottimismo che comunque riaffiorava poco dopo dalle parole di un convinto europeista come Rossi: “Vanno prospettati agli europei obiettivi politici forti, per rilanciare la loro voglia di stare insieme e di rinunciare a dosi ulteriori di sovranità nazionale”.
L’ottimismo della volontà in materia di Unione bancaria è presente pure nell’ultimo intervento pubblico del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che all’Assemblea dell’Associazione Bancaria Italiana (ABI) dello scorso luglio è tornato a insistere sul fatto che “in Italia e nell’Unione europea restano ancora da completare le riforme avviate per ridurre le fragilità messe in evidenza dalla crisi finanziaria globale e da quella dei debiti sovrani”. A questo proposito, affermava con enfasi Visco in chiusura del suo discorso, rimangono “da definire aspetti fondamentali dell’Unione bancaria, quali il fondo di risoluzione, non ancora dotato di un’adeguata copertura, e il sistema di assicurazione dei depositi, ancora da istituire. Le nuove regole hanno eliminato gli strumenti nazionali di gestione delle crisi bancarie ma non li hanno ancora sostituiti con efficaci meccanismi comuni”.
Nell’intervento di Rossi dello scorso 30 agosto, invece, è ormai svanito del tutto anche “l’ottimismo della volontà” che lui stesso auspicava ancora qualche mese fa. A Modena, infatti, il Direttore generale della Banca d’Italia ha ricostruito ancora una volta l’evoluzione cronologica dell’Unione bancaria; quindi si è detto d’accordo col presidente della Banca centrale europea, Draghi, sul fatto che il Meccanismo di Vigilanza Unico (SSM) delle banche sia “la tappa principale verso una maggiore integrazione economica dopo la creazione dell’Unione economica e monetaria” e ha definito tale Meccanismo come “un successo politico”. Alla fine però ha ribadito che lo schema comune di assicurazione dei depositi è ancora “di là da venire” e che addirittura “la proposta di un meccanismo di protezione pubblico per il Fondo di risoluzione unico e per il sistema di assicurazione dei depositi è stata, di fatto, accantonata”.
Il risultato è che “in sostanza, le banche sono divenute europee solo in un senso, ovvero in quanto vigilate e sottoposte a risoluzione a livello europeo. Il circolo vizioso tra settore bancario ed emittenti sovrani non è stato spezzato, tuttavia alle banche è stata imposta una camicia di forza volta a garantire che, in caso di fuga dai titoli di Stato emessi da un sovrano, le banche di quel paese non verranno salvate dai contribuenti, di quello stesso paese o di altri. In termini ancora più espliciti – ha spiegato Rossi – a un contribuente tedesco non si potrà mai chiedere di finanziare il salvataggio di una banca italiana in crisi per il peso, nel proprio bilancio, di titoli di Stato italiani in rapida discesa sui mercati”. Ce n’è abbastanza per spingere il numero due di Banca d’Italia a sostenere che è stato “accantonato lo scopo originario” dell’Unione bancaria, “ovvero scindere il legame perverso tra emittenti sovrani e banche”.
Più che una sopraggiunta forma di euroscetticismo, dalle parole di Rossi sembra emergere una certa rassegnazione verso un processo di integrazione che è stato colpevolmente interrotto, non di certo per volontà di Palazzo Koch. Nel definitivo “accantonamento” del terzo pilastro e dello “scopo originario” dell’Unione bancaria, anche se Rossi non lo dice, s’intravvede infine la chiara sconfitta di una strategia europea che su questo specifico punto ha accomunato gli ultimi quattro governi della scorsa legislatura, cioè gli esecutivi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni. Il “completamento dell’Unione bancaria” è stato infatti un refrain ossessivo e condiviso da tutti i più recenti inquilini di Palazzo Chigi e di Via XX Settembre. Con risultati finora nulli, a detta della Banca d’Italia. Al nuovo esecutivo toccherà presto decidere se insistere su quello che Rossi sembra definire un binario morto, o se tentare un’altra strada verso un’Unione monetaria più efficace. (Public Policy)
@marcovaleriolp