Il Pd è alla ricerca di una procedura, non di un’idea

0

di David Allegranti

ROMA (Public Policy) – Il “nuovo” Pd assomiglia molto alla precedente edizione. A partire dal metodo. Sabato scorso, all’Auditorium Antonianum, è stato votato il Manifesto dei valori prodotto dal comitato costituente composto da 87 personalità – per la verità qualcuno se n’era già andato da tempo – scelte secondo chiarissime regole correntizie. Una schema invertito, insomma: la Direzione del Pd vecchia di cinque anni ha scelto un Comitato costituente che ha costituito una carta dei valori prima ancora di eleggere il nuovo segretario. Il quale nuovo segretario, dunque, si troverà con un impianto stabilito da un organismo legittimato da un altro organismo ormai in scadenza. Insomma, un capolavoro.

Un tempo sarebbe andato di moda definire tafazziano l’atteggiamento di un partito incalzato da Giuseppe Conte e Terzo polo che perde tempo in discussioni su regole e codicilli, come quella regoletta che permette agli elettori e militanti di altri partiti (segnatamente, Articolo 1) di partecipare alle riunioni di circolo per il voto delle candidature a segretario “con diritto di parola e di voto”. Possono infatti partecipare, infatti, secondo le regole, “gli iscritti ai partiti e movimenti politici, alle associazioni e ai movimenti civici che con deliberazione dei proprio organismi dirigenti aderiscano al processo costituente, nonché i cittadini che affermano la volontà di partecipare al processo costituende, sottoscrivendo l’appello alla partecipazione con una adesione certificata, i quali dovranno dimostrare di aver effettuato il versamento della quota di iscrizione al Pd per il 2023 presso il circolo territoriale ovvero online entro la data di celebrazione dei congressi locali, anche attraverso la sottoscrizione di un impegno formale in tal senso all’avvio della campagna di tesseramento 2023”.

Insomma, basta un impegno formale a iscriversi e si può votare nei circoli del Pd. Per la gioia di chi deve gestire il congresso in regioni come la Basilicata dove gli iscritti di Articolo 1 non sono un qualche decina, ma 1.200. Insomma anziché parlare, si diceva, di tafazzismo oggi potremmo trovare un’altra parola, ma la sostanza non cambierebbe. Il Pd sceglie di farsi del male, rischiando di regalare a sé stesso un ruolo minoritario. Per questo il congresso potrebbe anche rappresentare una svolta. Persino in senso deteriore. Perché al Pd serve, in ogni caso, la fin delle ambiguità. Anche rispetto alla propria identità. Per dirla con distinzioni tagliate con l’accetta: riformatori o massimalisti? Post-democristiani o post-comunisti?

Insomma altro che Costituente, al Pd che è stato impegnato fin qui in pregnanti dibattiti su primarie online sì, no, forse, servirebbe un ricostituente. In questo modo potrebbe smettere di lamentarsi continuamente. Come quando, nelle settimane scorse, si è lamentato dello spoils system, dicendo che è in corso un assalto ai vertici della Pubblica amministrazione. Perché, quando il centrosinistra ha governato che cosa è successo? Non ha scelto di mettere a capo di partecipate e istituti le persone che riteneva adeguate al ruolo, e pure qualche fedele compagno di viaggio? E dire che il Pd avrebbe ben altre cose di cui occuparsi. Fra le quali trovare appunto il nuovo segretario, avviando un dibattito pubblico degno di questo nome.

Invece, come già scritto su Public Policy, è stato tutto un preoccuparsi di norme, di date, di modalità. Il Pd, lo ripetiamo, è malato di proceduralismo. È alla ricerca di una procedura, non di un’idea. Non di una soluzione per togliersi dai guai in cui si è infilato. Anziché evocare un dibattito sul lavoro, sull’economia, sull’ambiente, sulla scuola, sulle linee di frattura che attraversano la società, si è ragionato per settimane, mesi, su come fare il congresso. Al Pd manca una autentica narrazione politica, una visione. Con Walter Veltroni c’era l’idea della vocazione maggioritaria. Un partito che si candida a guidare, da solo, il Paese. Con Matteo Renzi è arrivata l’idea della rottamazione, della sostituzione di una classe dirigente sconfitta dalla storia.

È dunque un passaggio storico, quello del congresso del Pd, con la fine inevitabile del partito bifronte ex comunista ed ex democristiano, costruito per garantire il potere ai suoi appartenenti, ma spacciato per baluardo contro le “derive autoritarie e antidemocratiche”. Forse è chiedere troppo agli aspiranti segretari del Pd una svolta così significativa, ma come detto appare inevitabile. L’alternativa, nell’opposizione, è la supremazia progressiva del Movimento 5 stelle a guida Conte. (Public Policy)

@davidallegranti