Un’Europa in cerca della propria identità. Intervista a Massolo

0

di Leopoldo Papi

ROMA (Public Policy) – L’Unione europea, negli anni recenti, si è trovata ad affrontare sfide inedite, che ne hanno messo alla prova l’assetto giuridico e istituzionale, e la “costituzione materiale” data dalle relazioni politiche interne tra i Paesi membri. I due esempi più eclatanti sono l’aggressione russa all’Ucraina iniziata nel 2022, che non sembra trovare soluzione, e a partire da quest’anno, la messa in discussione, da parte del reinsediato presidente statunitense e campione dell’ideologia MAGA – Donald Trump – dell’integrazione commerciale, diplomatica e militare, che ha caratterizzato l’alleanza tra le due sponde dell’Atlantico dal dopoguerra.

Ci sono poi le sfide interne: come la crescita del consenso, in molte le democrazie dell’Unione europea di movimenti e partiti populisti e antisistema, che talvolta contestano l’estistenza e l’utilità stessa delle istituzioni comunitarie. Questi eventi rappresentano un dilemma per il futuro dell’Europa, perché innescano facilmente divergenze tra i posizionamenti e le reazioni dei singoli Paesi, vincolati ai loro sistemi di consenso e di potere interni, e la necessità e urgenza di definire strategie di risposta unitarie europee, senza le quali l’Europa appare inerme e paralizzata.

Public Policy ne ha parlato con l’ambasciatore Giampiero Massolo, presidente di Mundys, già segretario generale del ministero degli Esteri e direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza.

Quali sono secondo lei le vulnerabilità dell’Unione europea?

La vulnerabilità principale, che non è di oggi, è la mancanza di un’identità europea e la difficoltà per l’Europa di identificare interessi propriamente europei, che non siano solo il minimo comune denominatore degli interessi nazionali. In secondo luogo, vi sono molte politiche nelle quali stigmatizziamo l’assenza dell’Europa, ma che in realtà sono fuori dalle procedure europee e dai trattati. Ci lamentiamo di poca Europa nell’immigrazione, nella politica estera, di sicurezza, di difesa, ma queste materie non sono di competenza comunitaria, contrariamente al commercio, all’agricoltura, alla concorrenza. In terzo luogo ci sono le procedure che vedono ancora molto – anche se molto meno di quanto non si pensi –  il ricorso all’unanimità come condizionante. Viviamo in una fase in cui a queste criticità non si può realisticamente ovviare con una riforma dei trattati, in quanto questi vengono modificati all’unanimità non solo dei governi, ma anche dei parlamenti. Questo è il complesso dei fattori limitanti dell’Europa.

Quali soluzioni, realisticamente, si possono adottare?

Si possono fare tre cose. La prima è sfruttare al massimo le attuali competenze e le attuali possibilità offerte dai trattati dell’Unione, che non sono poche. Si tratta di ‘camminare sulla linea’ per cercare di andare quanto più in là possibile con le norme e le regole già vigenti.

In secondo luogo si può fare di più agendo per “gruppi di stati”, procedendo in raggruppamenti a geometria variabile, ma con un solido impianto che comprenda i Paesi membri maggiori, come la Francia, la Germania, l’Italia. Si possono così ottenere soluzioni che casomai in un momento successivo potranno essere recepite anche nei trattati, come è stato per l’Euro, o per Schengen. È importante osservare che tali gruppi ormai non debbano più accontentarsi di essere costituiti solo tra Paesi membri dell’Unione europea, perché in alcuni settori, e mi riferisco in modo particolare alla difesa, non possono non estendersi anche a Paesi ex-membri, come il Regno Unito, o esterni, come la Norvegia, un domani l’Ucraina, e la Turchia.

Un terzo aspetto è che i governi si attivino per cercare di coinvolgere molto le proprie opinioni pubbliche sui costi della ‘non Europa’. Vale a dire continuare a spiegare all’opinione pubblica che il progresso in alcuni settori, e la nostra sicurezza e prosperità nel quotidiano, dipendono anche dalla crescita della collaborazione europea. Questo renderebbe le opinioni pubbliche europee e dunque gli elettori più sensibili ai temi dell’Europa, della riforma dell’Europa, con ciò stesso allungando il campo ai governi che prima o poi dei destini dell’Europa dovranno pure discutere. Ricordiamoci poi di un aspetto importante: sotto la spinta delle crisi l’Europa reagisce e ha sempre reagito – si prenda il caso del Covid – e anche adesso quello che sta succedendo con l’evoluzione del concetto di difesa e di sicurezza, rappresenta una reazione significativa, non pensabile fino a qualche anno fa.

La cosiddetta “coalizione di volenterosi” tra Francia, Regno Unito, Germania, Polonia, per supportare l’Ucraina, può essere un esempio di evoluzione europea attraverso un’iniziativa di Paesi? 

La cosiddetta “coalizione dei volenterosi”non è altro che un gruppo di paesi che ritengono di volere e poter andare nella direzione di un rafforzamento della difesa dell’Ucraina. Pensando, giustamente, che il consolidamento dell’Ucraina e una significativa, credibile deterrenza nei confronti della Russia serva non solo all’Ucraina, ma anche alla sicurezza europea. Proprio i ‘volenterosi’ a mio modo di vedere, appresentano al di là dell’Ucraina, un esempio tangibile di un possibile sviluppo della difesa europea, fatto attraverso il coordinamento tra governi e la messa in comune di assets tra paesi. Ovviamente c’è un cambio di paradigma di cui dobbiamo essere consapevoli: occorre passare dal concetto di difesa europea al concetto di ‘difesa dell’Europa’, con  il coinvolgimento dunque anche di paesi che non appartengono all’Unione.

Come valuta il ruolo della Germania in Europa, all’indomani dell’insediamento del nuovo cancelliere Friedrich Merz?

Merz con le sue prime mosse proietta l’immagine di un cancelliere coraggioso, che riserva sorprese, e che non si conforma alle tradizioni consolidate a cui ci aveva abituato il decision making lento e per così dire, prevedibile della politica tedesca. Certo, si muove in una situazione economica e sociale interna non facile, e con un partner di governo, la Spd, non necessariamente d’accordo sulle sue iniziative. Vedremo quindi in pratica fino a che punto potrà dare seguito ai suoi obiettivi, rispetto ad esempio alla spesa militare piuttosto che sull’immigrazione.

Il nuovo atteggiamento tedesco appare comunque importante, perché l’identità politica europea scontava un po’ una Germania quasi riluttante ad assumere ruoli in politica estera, per quanto forte economicamente. Questo indeboliva nel complesso l’Europa, dando campo libero alla Francia, in un contesto in cui non necessariamente tutti gli stati membri si identificavano con le iniziative francesi. E dunque nell’ottica complessiva mi pare che la Germania che torna ad assumersi e a volersi assumere delle responsabilità, sia un segnale positivo per l’Europa e per il suo peso specifico.

Quali sono le implicazioni della guerra in Ucraina, per il futuro dell’Europa?

Su questo tema dobbiamo essere molto chiari: la posta in gioco della guerra in Ucraina è la sicurezza europea. Consentire a Putin di arrivare ad una soluzione che non veda l’Ucraina in Europa e in Occidente significa dargliela vinta su un punto molto rilevante: premiarne l’aggressione e implicitamente accettare il rischio e una prospettiva percui in capo a tre o cinque anni torni a ridivertare aggressivo. Più in generale, questa prospettiva lascerebbe l’Europa collettivamente meno sicura. Si allontanerebbe l’obiettivo di un sistema di sicurezza europea, che noi auspichiamo sempre nell’ambito dell’alleanza con gli Stati Uniti, ma che spetta anche all’Europa contribuire a rafforzare dotandosi di efficaci misure di difesa e deterrenza.

Cosa si aspetta dai negoziati, nel breve termine?

Oggi come oggi non c’è possibilità di soluzione al conflitto, perché la parte ucraina pone il cessate il fuoco come  condizione per avviare negoziati, e dal canto suo la parte russa subordina il cessate il fuoco a condizioni inaccettabili non soltanto per l’Ucraina, ma anche per tutta l’Europa. La Russia allontana intenzionalmente la prospettiva del cessate il fuoco, per cercare di avvantaggiarsi il più possibile sul terreno durante l’estate, e poi vedere in autunno o entro fine anno quale sarà la situazione sul campo, quella tra europei e americani, e all’interno delle opinioni pubbliche europee, che qualche segnale di fatica lo stanno cominciando a dare.

Solo allora si potranno comprendere meglio le possibili evoluzioni del conflitto, e capire anche quale sarà, in ultima analisi, l’atteggiamento di Trump: se effettivamente vorrà abbandonare il negoziato e lasciare gli europei in prima linea, magari rimanendo dietro le quinte a dare un po’ d’aiuto, o se invece si risolverà a premere sulla Russia come gli europei auspicano. In entrambi gli scenari e aspettando l’autunno, è fondamentale non perdere il contatto con gli americani.  Su questo le diplomazie europee stanno lavorando in previsione del G7 che si terrà in Canada (dal 15 al 17 giugno, Ndr) e del successivo vertice Nato, il 24 e 25 giugno all’Aja.

Tornando al tema delle opinioni pubbliche, la crescita elettorale in molti paesi europei di forze politiche sovraniste e antisistema, è talvolta attribuita ad azioni di ‘guerra ibrida’ e di disinformazione, tali da giustificare interventi normativi per renderle illegali o escluderle dalle competizioni elettorali. Cosa ne pensa?

Non credo sinceramente che sia tutto frutto di manipolazione. Indubbiamente da parte russa c’è un’attività manipolatoria e di sabotaggio, e azioni che cercano di minare dall’esterno la solidità delle democrazie occidentali e le loro procedure democratiche. Non è un’attività inedita, anche se è diventata più facile da intraprendere grazie ai mezzi cibernetici e con i social media. Ma la crescita dei consensi alle forze politiche antisistema è indubbiamente frutto anche di un rapporto in crisi tra governanti e governati. Fra aspettative dei corpi elettorali e risultati da parte dei governi. Si tratta di aspettative disilluse essenzialmente in termini di prosperità e di sicurezza, che suscitano reazioni di questo tipo, di cui vi sono molti esempi e a molte latitudini.

Venendo alle possibili soluzioni, non penso che questi fenomeni possano essere fermati o mitigati per via normativa, o restrittiva. Anche qui, e non mancano gli esempi a tutte le latitudini, il tentativo di utilizzo di strumenti normativi per indirizzare il consenso è una tattica che raramente ha dato risultati positivi. L’affermazione di forze antisistema è in atto in molti paesi, e in alcuni è più preoccupante per le loro connotazioni estreme, mentre in altri quelle stesse forze o sono già state al governo e magari non ci sono più, oppure sono al governo e si stanno misurando con i problemi concreti. Al di là degli slogan elettorali, governare non è facile per nessuno: il mio auspicio è quindi che queste tendenze possano riassorbirsi in una normale dialettica politica, che porti a governi più efficienti dal punto di vista del decision making e a opinioni pubbliche più consapevoli che non esistono soluzioni facili a problemi complessi. (Public Policy)

@leopoldopapi