di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, nel presentare il documento programmatico del suo dicastero alle competenti commissioni di Camera e Senato ha usato parole durissime contro la “diffusione pilotata e arbitraria” delle intercettazioni acquisite nelle indagini giudiziarie e illegittimamente pubblicate come “strumento micidiale di delegittimazione personale e politica”.
Nordio non si è peritato di definire la prassi dell’origliamento a mezzo stampa “una porcheria e una deviazione dei principi minimi di civiltà giuridica”, dichiarando di essere sul punto “disposto a battersi fino alle dimissioni”. Le parole di Nordio hanno suscitato una dura e del tutto prevedibile risposta da parte dell’Anm e sul punto sarà avviata a breve una indagine conoscitiva da parte della commissione Giustizia del Senato, che promette di riaccendere uno scontro durissimo sia in ordine all’uso delle intercettazioni in ambito giudiziario, sia rispetto al tema della loro riproducibilità nell’attività giornalistica. Sarebbe però opportuno separare il primo dal secondo tema ed agire su quest’ultimo in maniera più tempestiva, perché non esiste praticamente giorno in cui la “porcheria” denunciata da Nordio non faccia capolino dalla prima pagina di quasi tutti i giornali italiani (con pochissime, piccolissime e meritorie eccezioni).
Massimo Bordin era solito dire che prima di procedere alla separazione delle carriere dei pm e dei giudici, occorresse separare le carriere dei giornalisti da quelle dei magistrati. Separazione che per altro non comporta alcuna riforma della Costituzione e nessun intervento strutturale in campo penale, anche se la materia è politicamente e mediaticamente molto sensibile e redditizia – sulle intercettazioni aziende editoriali e fazioni giudiziarie costruiscono da decenni fatturati e carriere – e dal punto di vista giuridico particolarmente delicata, perché la sua disciplina serve a salvaguardare obiettivi di grande rilevanza costituzionale.
Il primo è l’efficacia dell’attività investigativa, che può essere pregiudicata dalla diffusione di soffiate a mezzo stampa. Il secondo è la salvaguardia della reputazione degli indagati (e delle altre persone coinvolte nell’indagine e potenzialmente intercettabili), che può essere definitivamente compromessa, cioè sputtanata, molto prima dell’accertamento di eventuali responsabilità, cioè non solo prima della condanna, ma della stessa imputazione. Il terzo obiettivo è la garanzia, per quanto possibile, della “verginità cognitiva” e della serenità dei giudici che devono assumere decisioni sulla base delle prove che si formano nel contradditorio tra le parti e che possono, come tutti, essere condizionati sia da notizie parziali e manovrate, sia soprattutto dalle aspettative, tipicamente colpevoliste, che queste notizie, presentate alla stregua di prove provate, suscitano nell’opinione pubblica.
Per giungere a una soluzione sostenibile e coerente, in teoria, c’è il vantaggio che i tre obiettivi non sono in contrasto gli uni con gli altri e quindi non è neppure necessario il bilanciamento di esigenze diverse. In pratica c’è però il problema che la prassi indebita della diffusione di comunicazioni riservate, intercettate all’interno di un’indagine, è in Italia a tutti gli effetti il paradigma dell’informazione giudiziaria.
I tre obiettivi sopra descritti sarebbero tutti soddisfatti da una normativa rigorosa e restrittiva, che impedisse di volantinare a mezzo stampa brandelli di conversazioni private, senza particolari distinzioni tra quelle “rilevanti” ai fini dell’indagine e quelle “irrilevanti”, visto che il loro rilievo è quello eventualmente stabilito da un giudice e la più o meno grande attinenza delle conversazioni intercettate con l’oggetto dell’indagine non integra di per sé il diritto di terzi a conoscere qualcosa, la cui rilevanza penale è ancora lungi dall’essere stabilita.
Il teorema, per cui qualunque comunicazione intercettata in una indagine che riguardi personaggi o vicende pubbliche sia per ciò stesso pubblicabile, è ormai considerato dimostrato malgrado le norme, di per sé confuse e ripetutamente manomesse, dicano comunque il contrario. E non dicono il contrario solo rispetto alle intercettazioni irrilevanti, che non possono trovare spazio nel fascicolo di indagine e di accusa, ma anche di quelle rilevanti e non più coperte dal segreto investigativo, “fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare” (articolo 114, comma 2 del codice di procedura penale).
L’unica deroga a questo principio, inserita improvvidamente nel decreto legislativo 29 dicembre 2017, n. 216 (ministro Andrea Orlando), riguarda gli atti contenuti nelle ordinanze di custodia cautelare, che sono il veicolo di sdoganamento delle intercettazioni mediaticamente più gustose: un vero via libera alla pubblicazione, decretata dietro la foglia di fico della prescrizione che nell’ordinanza che dispone la misura cautelare siano “riprodotti soltanto i brani essenziali” delle comunicazioni e conversazioni intercettate (articolo 292, comma 2-quater del codice di procedura penale). In ogni caso, in questa materia i divieti sono irrilevanti soprattutto perché sono inconsistenti, ai limiti del ridicolo, le sanzioni per la loro violazione.
L’articolo 684 del codice penale stabilisce che “chiunque pubblichi, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione, è punito con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da euro 51 a euro 258”. Fino a che pubblicare intercettazioni che fruttano decine di migliaia di euro di vendite costerà al massimo 258 euro – e sarebbe comunque interessante sapere quanti procedimenti sono stati avviati e conclusi negli ultimi anni – queste continueranno a essere pubblicate, per quanto possa essere rinforzato l’apparato dei divieti. Il ministro Nordio, che ha promesso di volere fare sul serio, andrebbe quindi seriamente e urgentemente sfidato su questo punto.
Prima di rimettere mano, per l’ennesima volta, alla disciplina delle intercettazioni – su cui ci sarà comunque da accapigliarsi per mesi – si può procedere ad aggiornare subito quella delle sanzioni, depenalizzando il reato per finta della “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale” (art. 684 cp) e sostituendolo con una sanzione amministrativa pecuniaria, finalizzata a rendere economicamente sconveniente la violazione del divieto di pubblicazione. Come il patriottismo, secondo il famoso adagio di Samuel Johnson, è il rifugio delle canaglie, così la difesa della libertà dell’informazione è diventata la trincea degli affaristi dello sputtanamento: si può dunque essere certi che anche questa sarebbe accusata trasversalmente di essere una “legge bavaglio”, come è avvenuto in questi anni per ogni tentativo di evitare che la giustizia di piazza, e quella di potere, trovassero nell’informazione deviata un foro anticipato e privilegiato e i proscioglimenti o le assoluzioni arrivassero quando la pubblica piazza della tv, della stampa e di internet aveva già pronunciato ed eseguito le proprie sentenze di condanna.
Visto che per informare su una indagine o su un arresto, in una fase del procedimento ancora lontana dalla richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione, non è affatto necessario pubblicare brani di conversazioni con un falso crisma di ufficialità, sarebbe inoltre utile bonificare questa fase istruttoria dalla distorsione costituita dalla pubblicazione delle intercettazioni contenute nell’ordinanza che dispone una misura cautelare. Con queste due sole misure le “porcherie” denunciate dal ministro Nordio avrebbero fine. Non è dalla benevolenza dei giornalisti e dei magistrati – si potrebbe dire parafrasando Adam Smith – che ci dobbiamo attendere una informazione giudiziaria civile, ma dalla cura che gli editori hanno per i propri interessi. (Public Policy)
@carmelopalma