di Carmelo Palma*
ROMA (Public Policy) – Dei circa 6mila emendamenti presentati alla legge di Bilancio 2026, 1.600 dei quali dai partiti della maggioranza, se ne discuteranno nella 5a commissione di Palazzo Madama poco più di 400.
Invece, se lo schema seguito negli ultimi anni sarà confermato, non se ne discuterà neppure uno nell’assemblea del Senato, perché la legge di Bilancio, con le modifiche negoziate in corso d’opera, sarà impacchettata dopo il passaggio in commissione in un unico articolo da un maxi-emendamento governativo, da approvarsi con voto di fiducia, che farà decadere tutti gli emendamenti dei senatori.
I pochi che seguono l’attività legislativa con interesse, senza avere una specifica formazione in materia, sanno che l’avvio della discussione sulla legge di Bilancio ruota attorno agli emendamenti cosiddetti “segnalati”, cioè gli unici che sono discussi nella commissione competente, prima che il provvedimento approdi in aula. Di questi pochi interessati pochissimi sanno qualcosa dell’istituto della “segnalazione”, che, in particolare al Senato, è il prodotto di una prassi organizzativa priva di specifici presupposti regolamentari.
A Montecitorio gli emendamenti segnalati sono in teoria disciplinati dall’articolo 85-bis del Regolamento, mentre a Palazzo Madama se ne è di fatto mutuato dalla Camera l’utilizzo per ragioni di economia procedurale, senza provvedere a modifiche del Regolamento del Senato.
D’altra parte, anche tra i deputati l’istituto non è stato introdotto come strumento di contingentamento del potere di iniziativa legislativa degli eletti, ma con una finalità esattamente contraria, cioè come istituto di garanzia del Parlamento e in particolare delle opposizioni dalle iniziative anti-ostruzionistiche della presidenza.
L’articolo 85-bis stabilisce infatti che i gruppi parlamentari possano “segnalare, prima dell’inizio dell’esame degli articoli, gli emendamenti, gli articoli aggiuntivi e i subemendamenti da porre comunque in votazione qualora si proceda, in applicazione del comma 5 dell’articolo 85, a votazioni riassuntive o per principi” in un numero “non inferiore in media, per ciascun articolo, ad un decimo del numero dei componenti del Gruppo stesso” o a un quinto per i disegni di legge di conversione dei decreti legge.
Tradotto: quando in base all’articolo 85, comma 5, il presidente adotta misure draconiane di sfoltimento degli emendamenti considerati ostruzionistici, perché “tra loro differenti esclusivamente per variazione a scalare di cifre o dati o espressioni altrimenti graduate” i gruppi hanno comunque il potere di segnalarne, cioè salvaguardarne un certo numero. Col tempo, l’emendamento segnalato è passato a significare quel che significa oggi senza che la diversa prassi e la diversa interpretazione dell’istituto abbia trovato una sistemazione regolamentare.
Il risultato è che oggi per segnalati non si intendono gli emendamenti ostruzionistici salvati, insieme a tutti gli altri non ostruzionistici, ma i soli emendamenti in discussione: tot a gruppo parlamentare, a discrezione del presidente di commissione, in proporzione ai componenti. La media, questa volta, è stata di circa due emendamenti per ciascuno dei duecento senatori. La possibilità di segnalazione è stata fortemente ridimensionata dal punto di vista quantitativo.
Per fare un esempio, il principale gruppo di opposizione al Senato, quello del Pd, se gli fosse riconosciuto – come si diceva a proposito dell’articolo 85-bis del Regolamento della Camera – un numero di emendamenti pari al prodotto tra un decimo dei componenti (36) e il numero degli articoli del provvedimento (154), potrebbe segnalarne oltre 550: invece se ne è visti riconoscere solo 70, circa otto volte di meno. Non c’è dubbio che il problema della garanzia di tempi certi di esame della legge di bilancio sia ineludibile e che un qualche principio di economia organizzativa debba sovraintendere ai lavori di esame e approvazione del provvedimento. Ad essere molto discutibile è che questo possa avvenire istituzionalizzando, a forza di precedenti, prassi regolamentari discrezionali o addirittura arbitrarie. Anche sul piano parlamentare, sarebbe preferibile cambiare e aggiornare le regole, piuttosto che aggirarne il significato normativo e neutralizzarne o distorcerne l’applicazione.
Peraltro, l’alibi dell’efficienza, che porta a strozzare i tempi della discussione in commissione e in aula e a saltare a volte a piè pari qualunque voto, ad esclusione di quello finale di fiducia, viene invocato anche quando gli emendamenti in discussione sono molto pochi e affrontabili in tempi molto brevi, ma con rischi politici di divisioni e defezioni dentro la maggioranza. Proprio gli organi che come il Parlamento dispongono di un potere di auto-normazione rispetto all’esercizio dei propri stessi poteri costituzionali sarebbero chiamati a rendere ancora più esplicite le norme e in linea di massima non disputabili le relative interpretazioni. Una situazione in cui le norme non esistono e le prassi possono essere diversamente adattate, senza veri limiti di diritto, alle esigenze delle maggioranze pro tempore rende il Parlamento tanto più irrilevante quanto più assoluto è il potere che la presidenza esercita nella disciplina del processo legislativo.
Se la sessione parlamentare di bilancio fosse ragionevolmente organizzata secondo una griglia rigida sia sul numero delle modifiche proponibili, che sui tempi della loro discussione, e questi non fossero come oggi puramente eventuali e simbolici, la legge che decide dei conti dello Stato non diventerebbe il ricettacolo di emendamenti usa-e-getta utili solo come strumenti di propaganda o comunicazione politica e si eviterebbe l’impressione, spesso fondata, che rispetto a molte proposte difficili sia da approvare, malgrado le promesse, sia da respingere, malgrado la contrarietà dichiarata, le maggioranze di turno preferiscano evitare voti compromettenti.
D’altra parte, le prassi parlamentari à la carte sono, per responsabilità assolutamente trasversali, il fattore che più ha contribuito a deparlamentarizzare il processo legislativo – si pensi all’abuso dei decreti legge e dei sub-emendamenti omnibus – e a rendere opache le responsabilità delle decisioni politiche, in un clima in cui nulla è certo, tutto è possibile, niente è davvero imputabile a qualcuno, ma chiunque diventa sospettabile di tutto. Se il ruolo delle camere è di ratificare ex post e all’ingrosso accordi discussi e fatti altrove, non di proporre le leggi o di modificare quelle proposte dal Governo, anche l’immagine dei parlamentari diventa quella dei rappresentanti di interessi, non della sovranità popolare. (Public Policy)
@CarmeloPalma
*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato





