di Pietro Monsurrò
ROMA (Public Policy) – Da giorni – anzi da anni – si parla dell’influenza russa sulla politica occidentale tramite network di siti internet che diffondono bufale o propagandano idee conformi agli interessi del Cremlino. Che la Russia cerchi di influenzare la politica occidentale era vero ai tempi dell’Urss, e continua ad essere vero oggi.
Che l’attrazione politica per la Russia sia preoccupante è anche evidente: la Russia può forse fungere da esempio per paesi come la Corea del Nord, non per un Paese avanzato. La questione più importante è però la ricettività delle società occidentali a tale propaganda, e quest’ultimo è un problema di origine autoctona.
Per influenzare le elezioni non basta spostare voti: bisogna spostarne a sufficienza da modificare il risultato elettorale: che siano referendum, o elezioni con sistema proporzionale o con sistema maggioritario, per incidere occorre avere i numeri. Difficile pensare che l’influenza politica russa valga più di qualche punto percentuale di voti: l’influenza è infatti data dal numero di voti che si spostano, non dal numero di voti che non si apprezzano, ed è assurdo contare per “influenza russa” ogni singolo voto dato a M5s, a Trump, o per la Brexit. È purtroppo impossibile dire quanti voti siano effettivamente spostati dalla disinformatsia russa, ma è ragionevole ipotizzare che siano al più pochi punti percentuali.
Con questi numeri non sarebbe cambiato nulla in nessuna elezione degli ultimi anni, tranne nei casi in cui la differenza di voti tra vincenti e perdenti è stata estremamente risicata, e in quest’ultimo caso la questione è perché i margini fossero così esigui. Come mai – semplificando la questione – partiti “istituzionali” e partiti “anti-establishment”, in diversi paesi occidentali, se la battono all’incirca 50-50? Come si è arrivati al punto che circa metà dell’elettorato diffida dell’establishment?
Per quanto questa domanda sia fondamentale, non esiste una risposta affidabile. C’è scarsa fiducia nelle autorità? Vero e anche comprensibile, ma non è chiaro se sia una causa o un effetto. Crisi economica? Ci sono state rivolte elettorali anche dove l’economia andava bene, come in Repubblica Ceca. Una reazione ad un’immigrazione eccessiva? Nei paesi dell’Est gli immigrati sono pochi. Lontananza delle decisioni politiche dalla popolazione, tramite ad esempio l’accentramento di poteri a Bruxelles? Possibile, ma cosa è cambiato negli Usa? Il politicamente corretto e i sensi di colpa immaginari costruiti dai liberal? È un problema limitato agli Usa, o più in generale al mondo anglosassone. La stagnazione? È un problema solo italiano.
Tutte queste spiegazioni sono plausibili, ma nessuna è sufficiente. Lo stesso fenomeno – le rivolte elettorali di Ukip e M5s, le scalate ostili a partiti istituzionali di Trump e Sanders, la vittoria di forze politiche tradizionaliste nell’Est Europa – ha molteplici cause, e il mix di cause varia da paese a paese. Ma rispondere a questa domanda, e trovare strategie per risolvere il problema, è più importante di lamentarsi dei pochi voti effettivamente determinati dal Cremlino, che nulla potrebbe se si trovasse di fronte a sistemi politici stabili, considerati legittimi e degni di fiducia.
Ciò che l’Occidente ha perso è il capitale politico necessario per cooperare, ha perso la fiducia tra governati e governanti, e quella tra membri degli opposti partiti. Si è diviso in tribù politiche composte di pasdaran bigotti, autoreferenziali, arroganti, presuntuosi, aggressivi: ma come diceva Abraham Lincoln citando il Vangelo: “se una casa è divisa in sé stessa, quella casa non può reggersi” (Marco, 3:25).
È più facile insistere su Putin che porsi questioni difficili che potrebbero rivelare le proprie responsabilità: ma la cosa più importante da fare in momenti di crisi è chiedersi dove si è sbagliato e come si può cambiare. Concentrarsi solo sul Cremlino, a mo’ di deus ex machina, rischia di allontanare ulteriormente il momento dell’autocritica. (Public Policy)
@pietrom79
[…] Lo Jihadismo è una di quelle questioni che nascono e si sviluppano sotto la Guerra Fredda e che proprio tale cornice contribuì a non far deflagrare fino al 1991. Perlomeno dal 1979, quando l’Urss invase l’Afghanistan iniziando una guerra decennale che si concluse solamente nel 1989, ad oggi lo jihadismo ha incrociato più volte la storia dell’Unione Sovietica e della Russia, si pensi ad esempio alle due guerre cecene (1994 – 1996; 1999 – 2009). Ad oggi tale minaccia riguarda anche il potenziale disgregativo della Federazione Russa, innestandosi sulle istanze indipendentiste e regionaliste presenti in alcune regioni, come il Tatarstan. Un problema che riguarda anche molti degli Stati cuscinetto della Russia, nel Caucaso e nell’Asia centrale. Pertanto, combattere lo jihadismo è per Mosca fondamentale al fine di securizzare i propri confini e rafforzare il controllo sulle regioni interne, ma anche per questioni di propaganda. Partecipare alla guerra al terrore pone, infatti, dalla “parte giusta della storia.” Non a caso, all’indomani della dichiarazione di guerra al terrore da parte di Bush nel 2001, Putin si premurò di farvi rientrare anche la seconda guerra in Cecenia. La guerra al terrore può così essere sfruttata sia per la propaganda interna che estera: nel primo caso legandosi al più ampio discorso patriottico promosso da Putin di “ricostruzione dell’impero” che coinvolge anche una riscrittura della storia in senso, per l’appunto, patriottico; il secondo rientra nella più ampia strategia di destabilizzazione o influenza delle democrazie occi…. […]