Le sfide dell’autonomia strategica europea. Intervista a Berninger (Bayer)

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di Giada Scotto

ROMA (Public Policy / Policy Europe) – “Dovremmo chiederci come mai siamo finiti nelle mani dei consumatori statunitensi per guidare la nostra crescita. E dovremmo chiederci come possiamo crescere e generare ricchezza da soli. Se l’Europa vuole davvero essere meno dipendente dalla crescita degli Stati Uniti, dovrà produrla da sé”. Dal palco del XVIII summit Cotec di Coimbra, l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi rilancia la necessità di un’Europa che, dopo anni di politiche fiscali “restrittive”, scarsa attenzione alla “produttività interna” e rinuncia “allo sviluppo del mercato interno come fonte di crescita”, che l’hanno portata a delegare ad altri – e in particolar modo agli Stati Uniti – la propria crescita, torni ad investire su se stessa. Un monito reso ancor più urgente dalle recenti evoluzioni geopolitiche e dal vasto ricorso ad “azioni unilaterali”, in particolar modo da parte degli Usa, che rappresenta per l’ex premier “un punto di rottura” che mina l’ordine multilaterale in modo profondo e “difficilmente reversibile”.

Public Policy ne ha parlato con Matthias Berninger (nella foto), vicepresidente esecutivo per gli Affari pubblici, la scienza e la sostenibilità di Bayer, ex parlamentare tedesco per i Verdi e viceministro per la Protezione dei consumatori, l’alimentazione e l’agricoltura dal 2001 al 2005.

D. L’attuale contesto geopolitico e il “nuovo corso” intrapreso dalla politica americana hanno riportato in primo piano il dibattito sull’autonomia strategica europea, un concetto variegato che non riguarda solo l’ambito della difesa, oggi al centro dell’attenzione delle istituzioni comunitarie, ma anche altri ambiti, dall’energia all’alta tecnologia, in particolar modo quella digitale. Cosa ne pensa? 

R. Vorrei iniziare dicendo che non credo che il presidente Trump sia la causa della situazione in cui ci troviamo, quanto piuttosto un sintomo di essa. Stiamo assistendo da tempo a degli spostamenti del potere geopolitico, ed è sempre facile addebitarli, ad esempio, a una singola persona. In questo caso, si dice che il presidente Trump ne sia responsabile e che l’Europa debba reagire. Ma io non ragiono in questi termini, e penso piuttosto a quali siano tali spostamenti e a cosa questi significhino per l’Europa. Ho iniziato a fare politica in giovanissima età, ho cominciato a pensare in termini politici all’epoca della caduta del muro di Berlino. La Guerra Fredda sembrava finire, abbiamo avuto l’era della globalizzazione, e penso che l’Europa ne stesse beneficiando moltissimo. Il nord Italia è una delle aree più orientate all’export, e lo stesso vale per il sud della Germania, l’area industriale tedesca. Stavamo vivendo in un’epoca in cui i muri non si costruivano, ma si abbattevano.

Abbiamo però visto che questa tendenza all’integrazione economica e politica è poi rallentata, fino a fermarsi. E credo che l’Europa debba affrontare questa realtà, pensare a come assicurarsi di essere equipaggiata al meglio per affrontare il nuovo mondo. C’è una citazione di Antonio Gramsci, che dice: “Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”. Si tratta di una citazione di una persona che ha sofferto molto, a livello personale, che ha rischiato di morire imprigionato da Mussolini, e che era così malato che, anche dopo essere stato liberato, non visse molto a lungo. Ma credo che la frase che ci ha lasciato sia fondamentale perché l’Europa comprenda la gravità della situazione.

Come affronta l’Europa queste transizioni? Come affronta i “mostri” che da queste emergono? Questa è la domanda cruciale. Eppure L’Europa, invece di andare al cuore del problema, si perde nel gergo burocratico. Si parla di semplificazione da una parte, di regolamentazione del mercato dall’altra. Tutte queste politiche sono importanti, certo. Ma a volte l’Europa non riesce a vedere la foresta per colpa degli alberi. Dobbiamo capire che sta accadendo qualcosa di davvero grande e che saremo in grado di garantire la nostra qualità della vita solo se lo affronteremo insieme.

D. Dal punto di vista di una grande azienda globale quale è Bayer, quali sono le differenze – e le criticità – che si riscontrano nell’operare negli Stati Uniti e nel farlo invece nel contesto dell’Unione europea? Si dice spesso che il problema dell’Ue sia l’eccesso di regolamentazione ma anche la frammentazione del mercato, e sempre Mario Draghi ha a più riprese sottolineato come ci siano più barriere all’interno dell’Unione europea che al suo esterno. 

R. A gennaio sono stato a Davos e la cosa che più mi ha sorpreso sono state le aziende europee che si lamentavano dell’Europa. C’erano aziende cinesi, ma non si lamentavano della Cina. C’erano aziende americane, ma non si lamentavano degli Stati Uniti. C’erano aziende indiane, ma non si lamentavano dell’India. Le aziende europee sembrano invece essere concentrate a lamentarsi delle basi stesse del loro business. Bayer esiste dal 1863, è stata fondata quando il presidente americano era Abraham Lincoln. Ogni volta che l’Europa si è disgregata, anche l’azienda ha avuto momenti difficili, mentre ogni volta che l’Europa si è unita, anche Bayer ha prosperato. Ed è per questo che abbiamo questo dono del mercato comune, di cui molte aziende hanno beneficiato.

Sebbene ci siano dei problemi, dobbiamo innanzitutto considerare l’Europa come il fondamento del nostro successo, e solo a partire da questo possiamo poi parlare di come migliorarla. Troppo spesso sento i leader aziendali parlare dell’Europa come se fosse un ostacolo. In realtà, ciò che li frena è il fatto di non essersi adattati abbastanza velocemente ai cambiamenti del nostro tempo o a quella che l’ex cancelliere tedesco Olaf Scholz chiamava “Zeitenwende”, una svolta epocale. Penso che molte aziende si stiano lamentando in realtà delle loro mancanze nell’anticipare un mondo che ora, naturalmente, le sta mettendo di fronte a dei problemi.

Bruxelles è la Silicon Valley della regolamentazione. Si è concentrata più sull’usare il bastone che la carota. Ma ora, sotto la guida di Ursula von der Leyen, vediamo un cambiamento piuttosto radicale. Sono stato a Bruxelles la settimana scorsa e ho trovato meno bastoni e più carote. Devo anche dire che, guardando ad esempio alla regolamentazione sulla sicurezza alimentare – con l’ Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) che ha sede in Italia, a Parma – se devo scegliere tra la regolamentazione europea e l’industria del contenzioso americana, scelgo sempre la regolamentazione europea. Penso che sia un vantaggio competitivo rispetto a quanto accade negli Stati Uniti.

D. Quali sono gli obiettivi e le sfide presenti e future che ha una multinazionale come Bayer, chiamata a fare innovazione nel campo dell’agricoltura e della chimica per l’agricoltura, alla luce delle sfide ambientali, legate anche ai cambiamenti climatici, ma anche alla luce degli emergenti problemi relativi alla food security?

R. Penso che una delle cose su cui l’Europa dovrebbe concentrarsi sia il fatto che le sue politiche sono troppo incentrate sui singoli settori e non tengono sufficientemente conto di quella che io definirei rilevanza sistemica. Quando si parla di rilevanza sistemica, viene spesso citata una società olandese, la Asml, leader nella produzione dei macchinari che permettono alle fabbriche di chip di realizzare quei chip da cui dipendono oggi le nostre vite. Guardando al futuro del sistema alimentare, Bayer non è molto diversa da Asml: comprendiamo meglio di chiunque altro il genoma delle colture più importanti al mondo, siamo in grado di combinare intelligenza artificiale, biologia e chimica in modi che nessun altro può fare. E questo ci rende un attore sistemicamente rilevante in un ambito sempre più sotto pressione: quello dell’alimentazione.

Il cambiamento climatico minaccia i raccolti. Abbiamo vicini – soprattutto nel continente africano – in cui la crescita della popolazione supera la produttività agricola, e questo significa che l’inflazione alimentare e la carenza di accesso al cibo saranno per questi Paesi un problema permanente. Ma abbiamo anche opportunità senza precedenti. Con l’aiuto dell’editing genetico possiamo accelerare la riproduzione delle piante, con l’intelligenza artificiale possiamo sviluppare nuove soluzioni per la protezione delle colture, che erano impensabili solo dieci anni fa.

Una delle cose che l’Europa deve decidere, in un ambito per noi così cruciale, è se accogliere queste nuove opportunità che si trovano all’incrocio tra chimica, biologia e intelligenza artificiale. Il modo per farlo è accettare di regolamentare l’editing genetico nell’Unione europea in modo da favorire la tecnologia. È infatti possibile regolamentarla anche in modo da ostacolarla, bloccarla o vietarla. Ma noi vogliamo una regolamentazione europea che accolga questa opportunità, che ci permetta di investire massicciamente nella ricerca e nello sviluppo nel settore agricolo. Le medesime opportunità nascono anche nel settore medico, e qui vedo già molto interesse a livello europeo. La tecnologia cellulare e genetica è una delle tecnologie future nel settore farmaceutico che molti governi europei stanno già considerando tale, e credo che questo sia anche l’ambito in cui possiamo ancora competere con Cina e Stati Uniti.

D. L’attuale contesto geopolitico, caratterizzato da una forte incertezza, pone anche questioni relative all’approvvigionamento per l’industria farmaceutica. L’Europa si sta muovendo in tal senso con il “Critical Medicines Act”, la proposta di regolamento per scongiurare carenze di farmaci e principi attivi considerati essenziali e rafforzare la produzione “Made in Europe”. Quali sono, secondo lei, i rischi nell’attuale contesto politico e geopolitico e come possono essere affrontati? 

R. L’Europa è la patria della chimica organica e può diventare anche la patria di quella che io chiamo “biorivoluzione”, vale a dire un cambiamento rivoluzionario nel modo in cui consideriamo tutto ciò che riguarda la vita, le proteine e gli altri elementi essenziali che ne derivano. Come possiamo affrontare tutto ciò? Uno degli slogan della globalizzazione era la produzione “just-in-time”, per cui le catene di approvvigionamento sono state ridotte in modo da essere super efficienti, tanto che a volte non si disponeva nemmeno più di magazzini. Il “just-in-time” ha portato più o meno a stoccare i prodotti per strada. Proprio come i camion erano fondamentalmente i magazzini di un tempo.

Ora stiamo entrando in un periodo di “just-in-case”. Non credo sia saggio per l’Europa, ad esempio, dipendere solo dalle importazioni in un settore cruciale per i farmaci, come gli antibiotici. Penso sia saggio incentivare la produzione farmaceutica nell’Unione europea, ma non si può chiedere all’industria farmaceutica di fare tutto questo e, al tempo stesso, ridurre la redditività, esercitando sempre più pressione sui prezzi dei farmaci. Per cui qualcosa deve cambiare. Un tempo si diceva che Bayer fosse la farmacia del mondo. Oggi ci sono molte aziende farmaceutiche che hanno più successo di noi, e ammiriamo i loro risultati. Ma quando si tratta di produrre farmaci – che sia in Italia o altrove in Europa – siamo ancora la farmacia d’Europa.

D. Che ruolo avrà la Germania con il nuovo Governo Merz? Quali sfide si troverà davanti? 

R. Io conosco la versione giovane di Friedrich Merz, perché siamo entrati insieme nel Bundestag nel 1994, ma in realtà non è cambiato molto. È sempre stato un convinto europeista. È arrivato al Bundestag dal Parlamento europeo, e ha sempre avuto una grande passione per le relazioni transatlantiche. Credo che la situazione sarà per lui particolarmente sfidante qualora gli Stati Uniti, decidesse di eliminare “trans” da “transatlantico”. Dato che adesso sono contro il DEI (diversità, equità, inclusione), magari non amano più neanche la parola “trans” e la cancellano. Se il “transatlantico” diventa solo “Atlantico”, e se tutto ciò che resta del legame è una relazione transazionale, allora le cose si faranno difficili per uno come Friedrich Merz, la cui identità si costituisce tra gli Stati Uniti e l’Europa ed è basata proprio sul rafforzamento di quel rapporto.

Rispetto al passato, Merz ha il vantaggio di avere i fondi per reinvestire in Europa. Ed un po’ ironico, dopo che lui aveva bloccato il suo predecessore impedendogli proprio l’accesso a quelle risorse. È un momento politicamente molto interessante, ma quando si è trattato di cambiare la maggioranza nel Parlamento tedesco, e quando abbiamo dovuto mobilitare una maggioranza di due terzi, ho parlato con molte persone che erano arrabbiate con lui e che dicevano: “ci ha bloccati, e ora devo dargli il mio voto per far spendere a lui quei soldi”. Si tratta di un cambiamento importante nella politica tedesca, perché la Germania non ha investito abbastanza in Europa per troppo tempo. Ora c’è una persona appassionata dell’Europa, che ha a cuore le relazioni transatlantiche, e che ha i mezzi per fare la differenza dal punto di vista finanziario. E queste sono tutte buone notizie per la Germania. La cattiva notizia è che il centro politico ha meno di una maggioranza di due terzi. E l’estrema destra tedesca è stata esclusa dall’estrema destra italiana, ungherese e francese, quando si è trattato di formare un gruppo al Parlamento Ue, perché l’estrema destra tedesca è molto diversa da quella degli altri Paesi europei.

Per questo, non valuto il successo di Friedrich Merz in funzione del risultato che otterrà alle prossime elezioni, bensì in base alla capacità del centro politico di riconquistare una maggioranza di due terzi dei seggi in Parlamento. Per riuscirci, deve fare molte cose giuste, e soprattutto ha bisogno del sostegno non solo dei suoi elettori, ma anche di chi non la pensa politicamente come lui. Io, ad esempio, ho prestato servizio per i Verdi tedeschi, una parte del centro politico. Ma credo comunque che dobbiamo tifare per il successo del nuovo Governo, per il bene della Germania, dell’Europa e per rafforzare i legami transatlantici in tempi difficili. Viviamo in un “tempo di mostri”. E non è una buona idea giocare col fuoco quando si vive in un’epoca di mostri. (Public Policy / Policy Europe)

@GiadaScotto