Il bipopulismo fiscale e la demagogia bipartisan sulle tasse

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di Carmelo Palma*

ROMA (Public Policy) – La demagogia fiscale – poco importa se di destra o di sinistra, di maggioranza o di opposizione – ha due assai poco raccomandabili conseguenze.

La prima è di rappresentare l’imposizione tributaria e contributiva non come il finanziamento del costo dello Stato, da ripartire tra tutti i cittadini in modo tale da non mortificare l’iniziativa individuale e non compromettere la prosperità collettiva, ma come una sorta di “prestazione” a vantaggio di una determinata platea dei contribuenti e a carico di un’altra, cioè come un’operazione di redistribuzione arbitraria di oneri e benefici.

La seconda conseguenza è di suggerire che esistano numeri per qualunque verità, anzi che ciascuno di essi possa confermare o smentire qualunque ipotesi e che quindi l’evidenza dei fatti e della loro rappresentazione aritmetica sia essa stessa un artificio sofistico e un dispositivo manipolatorio e non occorra prestare alcuna fede alla loro presunta oggettività.

La discussione delle misure contenute nella legge di Bilancio all’esame del Parlamento sta purtroppo seguendo questo copione ed è sinceramente difficile distinguere le colpe della maggioranza da quelle dell’opposizione di sinistra, a partire dalla disposizione simbolicamente più rappresentativa di questa manovra, che è la riduzione di due punti (dal 33 al 35%) dell’aliquota Irpef relativa al secondo scaglione di reddito (tra i 28.000 e i 50.000 euro annui).

La maggioranza l’ha presentata come l’ennesima tappa di una lunga marcia di riduzione della pressione fiscale, che però gli stessi documenti governativi smentiscono, visto che, secondo le stesse previsioni dell’Esecutivo, la pressione fiscale sul Pil raggiungerà nel 2026 il livello più alto dell’ultimo decennio, il 42,8 per cento, dopo essere aumentata di un punto tra il 2023 e il 2024. Il taglio di tre miliardi di Irpef all’anno evidentemente non compensa l’aumento del complesso delle imposte e dei contributi sociali versati e non autorizza affatto a dire che in Italia la pressione fiscale stia scendendo (come, per altro verso, non si può dire che stia esplodendo, visto che negli ultimi dieci anni si è sempre attestata intorno al 42% del Pil o leggermente sotto).

Se il Governo non ha nessuna ragione per dire di avere “abbassato le tasse”, ne ha ancora di meno l’opposizione di sinistra per accusarlo di avere fatto un taglio regressivo, che sfavorisce i redditi medio-bassi a vantaggio di quelli alti. Il fatto che il taglio dell’imposizione all’interno di uno scaglione favorisca maggiormente chi ha un’imponibile più alto è un effetto implicito della progressività del sistema, non una scelta discriminatoria del legislatore.

Peraltro, proprio lo scaglione centrale è quello in cui, a causa della mancata indicizzazione all’inflazione, sono finiti negli scorsi anni i contribuenti vittime del fiscal drag, per i quali il taglio parziale delle aliquote costituisce una sorta di risarcimento.

Inoltre definire i contribuenti che stanno sotto i 28.000 euro di reddito come poveri e come ricchi quelli che stanno appena sopra i 50.000 euro è francamente insostenibile. Un dipendente che guadagna 1700 euro per tredici mensilità è tout court povero e uno che ne guadagna 2500 è invece ricco? Se c’è un difetto di progressività nel sistema fiscale italiano, è negli scaglioni più alti e non più bassi del reddito imponibile. Un’aliquota analoga e pure inferiore a quella che in Italia colpisce i redditi sopra i 50.000 euro in Germania scatta a quasi 70.000 euro, in Francia oltre gli 80.000, nel Regno Unito oltre i 120.000.

Quella di una riforma fiscale che ruba ai poveri per dare ai ricchi è una rappresentazione fattualmente falsa e non solo distorta e acquisisce una paradossale credibilità solo perché è surrettiziamente appoggiata a evidenze, come quella dell’aumento di lungo periodo della povertà e della disuguaglianza, che sono un effetto di fenomeni economici – crescita stagnante, compressione salariale, bassa produttività, scarsa mobilità sociale… – non rimediabili con un uso magicamente espansivo di misure fiscali redistributive, a partire dalla cosiddetta patrimoniale. Anche su di essa si è scatenata una commedia degli equivoci in cui maggioranza e opposizione di sinistra hanno tenuto posizioni speculari e specularmente scorrette.

La proposta di una imposta patrimoniale generale sui “ grandi patrimoni” (che la Cgil stima sopra i due milioni di euro) ricorre regolarmente nella retorica delle sinistre – non solo di quelle italiane – e si scontra ovunque nel mondo con problemi di praticabilità, più che di equità, visto che i “grandi patrimoni” finanziari sono mobili e quindi in larga misura inafferrabili e gli unici patrimoni aggredibili diventano quelli immobiliari, che sono il principale patrimonio del contribuente medio italiano.

A questa proposta la presidente del Consiglio ha risposto stentoreamente che “con la destra al Governo la patrimoniale non vedrà mai la luce”, apparentemente dimentica del fatto che non solo in Italia come nella generalità dei Paesi sviluppati vi sono già svariate imposte patrimoniali (su immobili, terrene, depositi, conti titoli…), ma anche che il loro peso sul totale del gettito è superiore alla media Ocse e in rapporto al Pil, con il 2,5%, è in una posizione intermedia in Europa, sotto Francia e Regno Unito, ma sopra Germania e Olanda.

Il fatto che quasi niente di quel che si dice sulle tasse (come su altri temi) in Italia sia vero è un segnale di pericolo decisamente sottovalutato. Che il cuore del controllo democratico – no taxation without representation – esca completamente fuori dai binari del discorso razionale non è solo un problema di mediocrità dello spettacolo parlamentare. Il bipopulismo fiscale, alla pari di quello penale e costituzionale, è insieme causa e effetto del declino politico-economico dell’Italia. (Public Policy)

@CarmeloPalma

*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato