Il labirinto normativo sulla cannabis light

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di Carmelo Palma*

ROMA (Public Policy) – Quando il prossimo fine settimana, nella 5a commissione di Palazzo Madama, si inizieranno a votare gli emendamenti alla Manovra 2026, nel fascicolo dei “segnalati” del gruppo di FdI mancherà quello, inizialmente inserito (n. 28.0.1, a prima firma del senatore Gelmetti), che avrebbe realizzato una inaspettata marcia indietro rispetto alle disposizioni del decreto Sicurezza del 2025 in materia di produzione e commercio della cosiddetta cannabis light.

Nel giro di pochi giorni la proposta è stata infatti rinnegata e ritirata dal partito della presidente del Consiglio, ma questa decisione non chiude, bensì lascia ulteriormente aperta e indeterminata una questione che è attesa a breve al giudizio della Corte di Giustizia di Lussemburgo, cui l’ha rimessa il Consiglio di Stato per il contrasto con il diritto europeo, che autorizza ciò che la normativa nazionale oggi proibisce (il commercio di foglie, infiorescenze, olio e resina di cannabis sativa), sia al giudizio della Corte Costituzionale, a cui il gip di Brindisi ha chiesto di pronunciarsi sul ricorso alla disciplina penale rispetto a prodotti con un contenuto di THC inferiore alla efficacia drogante e dunque privi del requisito dell’offensività, che ne giustifichi la criminalizzazione.

Per capire più specificamente di quali problemi si tratti, bisogna ricostruire brevemente i passaggi normativi di una vicenda confusa innanzitutto per le decisioni contraddittorie dei legislatori e dei giudici nazionali.

La legge 2 dicembre 2016, n. 242 (“Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”), agganciandosi alla normativa europea, aveva autorizzato, contro le precedenti previsioni del dpR 9 ottobre 1990 n. 309 (Testo unico in materia di stupefacenti), la coltivazione della Cannabis sativa L. a basso contenuto di THC (0,2%, poi elevato a 0,3%) e aveva elencato gli usi leciti della produzione: alimenti e cosmetici, semilavorati, fitodepurazione, didattica e ricerca, florovivaismo…

La legge non parlava espressamente delle infiorescenze da fumo o dei derivati liquidi da inalazione. Però questo è il mercato che si è sviluppato come vera finalizzazione dell’attività florovivaistica. Per questo mercato, le stime più prudenti e indipendenti sono di un fatturato da mezzo miliardo all’anno, con circa 15.000 addetti disseminati in circa 3.000 imprese.

Dopo qualche anno, a seguito di una serie di contrasti interpretativi, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito con la sentenza 30 maggio 2019 n. 30475 che il commercio di infiorescenze è da considerarsi illecito e integra il reato di cui all’art. 73 dpR 309/1990, a meno che, caso per caso, non si dimostri che le sostanze vendute sono prive “di ogni efficacia drogante o psicotropa”.

La sentenza della Cassazione non ha però risolto, ma aggravato i problemi interpretativi del rapporto tra il DPR 309/90 e legge 242/2016, visto che nei fatti si fonda su due presupposti contraddittori. Infatti, da una parte la Cassazione presume l’efficacia drogante (salvo smentita) di sostanze che la normativa europea sottopone a normali regole commerciali, proprio in virtù dell’assenza di efficacia drogante (non di un blando effetto ansiolitico e sedativo, alla pari di molti prodotti da erboristeria). Dall’altra parte, la Suprema Corte stabilisce la necessaria sottoposizione di una condotta – la vendita di infiorescenze – alla disciplina penale anche se, al di là di problemi amministrativi (autorizzazioni, licenze…), non è affatto considerata illecita dalla legge 242/2016.

Di fronte a questi problemi si sono incagliati sia le forze di polizia che l’autorità giudiziaria, che, malgrado la Cassazione avesse stabilito che “la coltivazione della cannabis e la commercializzazione dei prodotti da essa ottenuti, quali foglie, inflorescenze, olio e resina, (..) in assenza di alcun valore soglia preventivamente individuato dal legislatore penale rispetto alla percentuale di THC, rientrano nell’ambito dell’art. 73, commi 1 e 4, dpR n. 309/1990” non hanno affatto stroncato d’imperio il mercato della cannabis light, che è continuato, con qualche incidente, fino al 2025, anche che perché nel frattempo alcune sentenze della magistratura amministrativa e della Corte di Giustizia europea continuavano a dar ragione ai cannabis shop.

A questo punto è intervenuto il decreto Sicurezza del 2025 – decreto-legge 11 aprile 2025 n. 48 – che ha dichiarato esplicitamente illegale e soggetta ai rigori del testo unico sugli stupefacenti la commercializzazione di prodotti “costituiti da infiorescenze di canapa, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, o contenenti tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli oli da esse derivati”. 

Ma l’intervento legislativo del Parlamento rimane ovviamente esposto ai potenziali profili di illegittimità cui già si esponeva l’applicazione dei principi stabiliti dalle Sezioni Unite della Cassazione, a partire da quello fondamentale: come è possibile trattare da “droga” una sostanza di cui il contenuto di THC esclude “l’efficacia drogante”?

L’emendamento presentato e poi ritirato da FdI avrebbe risolto il problema legalizzando in modo esplicito infiorescenze fresche o essiccate da fumare e prodotti liquidi da inalare, assoggettandoli però a una imposta di consumo disincentivante del 40%. Ora il ritiro dell’emendamento riporta tutto all’impasse in cui ci si trovava, in attesa delle pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia europea.

Rimane il fatto che estendere rigidamente il paradigma proibizionista sulla cannabis non drogante, mentre in numerosi Paesi del mondo viene legalizzato il mercato della marjuana a uso voluttuario, dà l’impressione di una battaglia demagogica e di retroguardia, che non consegue nessun vero obiettivo di salute pubblica, ma fa perdere svariate centinaia di milioni di euro all’economia italiana e molte migliaia di posti di lavoro. (Public Policy)

@CarmeloPalma

*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato