di Carmelo Palma*
ROMA (Public Policy) – I promotori dei referendum hanno tentato di circoscrivere la portata della sconfitta iscrivendo d’ufficio chi non ha disertato le urne nelle fila dell’elettorato di opposizione, a prescindere dal voto sui singoli quesiti.
L’aver superato di poco sul primo di questi (reintegro in caso di licenziamento illegittimo) la soglia dei 13 milioni di Sì (comprendendo il voto degli italiani all’estero) e quindi i consensi raccolti dai partiti di maggioranza alle elezioni del 2022 è una consolazione psicologica di scarso impatto e significato politico.
È discutibile che la partecipazione al voto domenica e lunedì scorso sia da considerarsi solo come una scelta di opposizione al Governo, anche perché è decisamente improbabile, per non dire impossibile che gli elettori dei partiti di maggioranza abbiano tutti, come un sol uomo, disertato le urne obbedendo alle indicazioni di Meloni, Salvini e Tajani.
Tra i dati, uno dei più rilevanti non emerge infatti dalle urne, ma da un’elaborazione fatta da SWG dei risultati dei sondaggi realizzati tra il 21 maggio e il 9 giugno, che ha stimato la percentuale di partecipazione al voto degli elettori dei diversi partiti. In base ad essa si sarebbe recato al seggio (ritirando la scheda, a differenza della presidente del Consiglio) un elettore su quattro di Forza Italia, uno su sei della Lega e uno su sette di Fratelli d’Italia.
Rapportando queste percentuali di partecipazione al voto sui referendum alle percentuali di voto stimate nei sondaggi per i diversi partiti, ne discenderebbe che almeno uno su cinque tra quanti sono andati a votare domenica e lunedì è un elettore di un partito della maggioranza di governo.
Il che spiegherebbe in parte anche il risultato, inatteso in queste proporzioni, dei No al referendum sulla cittadinanza, ma certificherebbe anche che tra i Sì ai referendum sul lavoro non sono affatto mancati gli elettori di FdI, Lega e FI.
Malgrado la rappresentazione propagandistica dell’esito del voto sia da destra che da sinistra, tutto lasciare credere che i due schieramenti siano stati tutt’altro che compatti al proprio interno e impermeabili a infiltrazioni esterne.
Il Campo largo dovrebbe prendere atto di non avere affatto allargato il proprio perimetro, ma al contrario di avere perso per strada un po’ di elettori, poco persuasi dalla spallata referendaria. La destra dovrebbe ammettere che i “referendum comunisti” hanno in parte fatto breccia nel suo elettorato e la cosa non è affatto incoerente in termini storici, perché contro il Jobs Act un decennio fa si schierarono tutti i partiti dell’attuale maggioranza, accusandolo di favorire la precarizzazione del lavoro e ridurre le garanzie per i lavoratori.
A ben guardare, da questo punto di vista i referendum su lavoro e cittadinanza, se pure rappresentano una indubbia sconfitta per i promotori, costituiscono anche un campanello d’allarme per i passaggi referendari a cui andrebbero sicuramente incontro le riforme costituzionali del centro-destra e in particolare quella sul premierato, che si lega in modo indissolubile alla figura e alla leadership di Giorgia Meloni.
Al referendum costituzionale sulla legge Renzi-Boschi, che fu accompagnato dalla retorica sull’allarme democratico che un po’ di anni prima aveva preso a bersaglio la riforma Berlusconi-Calderoli, andarono a votare circa due italiani su tre e malgrado Renzi fosse riuscito a raggranellare tredici milioni e mezzo di voti, i contrari ne raccolsero sei milioni in più.
Oggi il consenso di Meloni e del suo Governo è sicuramente più forte di quello che a dicembre del 2016 aveva il Governo Renzi, due anni e mezzo dopo l’exploit alle europee 2014, ma rimane il fatto che la sua maggioranza ha raccolto nel 2022 e nel 2024 rispettivamente tredici e undici milioni di voti in elezioni in cui avevano votato quasi trentuno e quasi venticinque milioni di elettori.
Per uno schieramento che dispone di una maggioranza relativa ampia, ma lontana dalla maggioranza assoluta degli elettori, è pericoloso presentarsi a un referendum confermativo di una riforma costituzionale. L’assenza del quorum rende impossibile la neutralizzazione del referendum con una strategia astensionista e il contenuto “democraticamente sensibile” della consultazione mobilita innanzitutto i contrari, come è già avvenuto per due volte nella storia italiana, nel 2006 contro Berlusconi e nel 2016 contro Renzi. Inoltre, sul premierato, se il referendum si svolgesse prima delle prossime elezioni Politiche, andrebbero messe in conto defezioni più che fisiologiche da parte di elettori di FI e della Lega, per l’usura dei rapporti interni della maggioranza e la volontà di ridimensionare il potere oggi incontrastabile della Presidente del Consiglio.
Anche l’ultimo voto e la relativa “disobbedienza” degli elettori del centro-destra si aggiunge dunque alle ragioni che portano a considerare un referendum sul premierato in questa legislatura come una cosa molto improbabile.
@carmelopalma
*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato
(foto cc Palazzo Chigi)





