Si riaccende la Siria: cosa significa per Mosca e Teheran

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di Francesco Galietti*

ROMA (Public Policy) – A due anni dall’invasione dell’Ucraina, Mosca dipende economicamente e militarmente da iraniani, cinesi, nordcoreani e yemeniti, e ora rischia di perdere la Siria e ritrovarsi alla mercé di Erdogan per entrare nei mari caldi. Con ogni probabilità, il collasso del regime di Assad in Siria costa a Vladimir Putin più della controffensiva ucraina nel Kursk. Agli iraniani, stretti alleati dei russi, va almeno altrettanto male: a un anno dalla carneficina del 7 ottobre, l’Iran ha perso Gaza, non ha destabilizzato la West Bank, ha perso il sud del Libano e ora rischia di essere buttato fuori definitivamente dalla Siria.

Mosca e Teheran pagano un prezzo esorbitante per aver condotto un conflitto su più fronti. Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina nel 2022, non è più stata in grado di prestare la stessa attenzione alla Siria. Mosca ha confidato che l’Iran fosse ancora in grado di sostenere militarmente il regime di Assad, e che la Turchia non fosse a sua volta in grado di rilanciare in tempi stretti un movimento ribelle. Assad da parte sua ha moltiplicato gli sforzi di riconciliazione nel 2023 con gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita.

Pur significative, queste mosse non gli sono valse la fuoriuscita dall’orbita iraniana, in cui resta imprigionato. È in questo contesto che va inquadrato il 7 ottobre, che ha innescato un violentissimo conflitto regionale che ha danneggiato pesantemente gli interessi iraniani in Siria e Libano, offrendo un varco di opportunità alla Turchia e alla sua rete di forze ribelli. Ora la Russia è costretta a investire risorse significative per mantenere il regime di Assad, il che, in un gioco geopolitico di vasi comunicanti, limita a cascata  la sua capacità di concentrarsi sul conflitto ucraino. (Public Policy)

*fondatore di Policy Sonar