di Massimo Pittarello
ROMA (Public Policy) – Alla fine, come nel calcio, l’Italia attacca con la Difesa. Durante la conferenza stampa sulla manovra, Giancarlo Giorgetti ha ammesso di aver detto molti “no” ai colleghi di Governo, ma non essere riuscito a fare lo stesso sulla Difesa. “A prima vista sembra che non ci sia un legame tra una politica di bilancio prudente e queste spese – cioè 12 miliardi tra 2026 e 2028, secondo il Dpf – tuttavia sono le regole”, ha spiegato. Regole che portano il timbro di Bruxelles e sui cui sia Berlino che Parigi si sono già allineate. In Europa si è infatti consolidata la convinzione, che gli investimenti militari rappresentino una leva di politica industriale, oltre che di sicurezza.
In questo quadro, la spesa per la Difesa è destinata a beneficiare di una clausola di salvaguardia europea, che consente di escludere alcuni investimenti strategici dal calcolo del deficit. L’Italia ha già avviato una richiesta per 14,7 miliardi, e probabilmente non sarà l’unico Paese. La logica è semplice, almeno nei palazzi comunitari. Se la guerra in Ucraina ha mostrato i limiti di una difesa frammentata, l’economia europea sta mostrando i limiti di una manifattura in ritirata (l’automotive in declino, sul tech siamo partiti con l’handicap). E allora la ricetta è un mix di fondi comuni, cofinanziamenti, programmi di acquisto congiunto, mercato unico e spesa pubblica in chiave keynesiana.
Il progetto si chiamerà SAFE – Strategic Arms and Facilities Europe – e prenderà la forma di un Pnrr della difesa. A gestirlo sarà la Commissione Ue nell’ambito della European Defence Industrial Strategy, l’evoluzione della PESCO del 2018, che punta a creare entro il 2035 un ecosistema produttivo integrato nel settore. Finora sono arrivati circa 10 miliardi di euro dall’European Defence Fund e dall’EDIP, ma il SAFE promette di alzare l’asticella, finanziando non solo ricerca e sviluppo ma, per la prima volta, produzione su larga scala di equipaggiamenti militari. Nel frattempo, l’economia si muove in anticipo: negli ultimi due anni in Europa sono nati 700 ettari di nuovi stabilimenti industriali dedicati a munizioni, mezzi blindati e componenti “dual use”. Ulteriore segno, oltre all’andamento dei titoli militari, che i mercati hanno capito la direzione.
In questo scenario, come al solito, i tedeschi provano a farsi locomotiva. Il piano di riarmo di Berlino vale 355 miliardi in 15 anni e non è solo una questione di sicurezza: è una strategia di politica industriale. La Germania punta a produrre in casa la gran parte delle forniture, ha fissato all’8% il limite massimo per gli acquisti extra-Ue nel 2026, ha messo 10 miliardi sul tavolo per i droni e ha annunciato di voler entrare nel capitale delle grandi aziende della Difesa. Potrebbe sembrare una coincidenza, ma dopo anni di costante calo della produzione industriale e una sorta di ‘crisi esistenziale del modello di sviluppo’, la Germania sta registrando segnali positivi negli investimenti e nella produzione industriale.
A Parigi, la situazione politica è più instabile ma la direzione non cambia. Il nuovo premier Sébastien Lecornu, oltre ad essere l’ex ministro della Difesa, è un ufficiale della Gendarmeria in aspettativa e uomo di sistema (Thales, Dassault, Chantiers de l’Atlantique) Inoltre, con approccio pienamente gollista, porta all’Eliseo la logica del “Buy European”, o meglio compra francese in ottica competitiva con gli Usa. L’obiettivo è trattenere in patria la quota maggiore possibile della nuova spesa europea. Lecornu parla la stessa lingua dei suoi omologhi tedesco e italiano, Pistorius e Crosetto, che non gli hanno fatto mancare messaggi pubblici di stima e supporto.
In Italia la questione cammina nel campo minato dei conti pubblici. “Spero che le guerre finiscano e che non ci sia la necessità di armarsi fino ai denti. Per adesso il 5% di spesa entro il 20235 è solo sulla carta”, ha detto Giorgetti. Guardando al Dpf e al Documento programmatico pluriennale 2026-2027 l’Italia raggiungerà per la prima volta il 2% del Pil in Difesa, sia con alcuni programmi specifici, sia includendo voci eterogenee come pensioni, Guardia Costiera e infrastrutture duali. Giorgia Meloni, consapevole della sensibilità del tema, ha messo le mani avanti: i 3 miliardi aggiuntivi del 2026, pari allo 0,15% del deficit, “non toglieranno risorse ad altri capitoli di spesa”. E ha oltretutto provato a rinviare il più possibile gli altri stanziamenti. C’è chi, per aggirare il problema, ipotizza di inserire il Ponte sullo Stretto tra le spese per ‘infrastrutture strategiche di Difesa”.
C’è sicuramente un problema di opinione pubblica, Ma non solo. Resta da capire il nodo risorse, perché senza debito comune europeo, il SAFE rischia di restare un acronimo senza portafoglio. La proposta di un Defence Facility sul modello del Next Generation EU divide le capitali e spaventa i falchi del rigore. Ma anche come frenare la dipendenza a da forniture extra-Ue di componentistica (chip) e materie prime, come integrare concretamente i progetti delle aziende della Difesa italiane, francesi, tedesche o comunque europee. Senza dimenticare che a forza di produrre armi poi si rischia di usarle. O che basare l’economia sull’industria bellica può condurre a fare qualunque cosa pur di alimentarla. Tuttavia, anche Giorgetti ha dovuto cedere. (Public Policy)
@m_pitta
(foto cc Palazzo Chigi)