Agitazione bipartisan, tra terzo mandato e riforme

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di David Allegranti

ROMA (Public Policy) – Il terzo mandato non è una discussione politica destinata ad agitare solo il dibattito pubblico del destra-centro, con Fratelli d’Italia e Lega che da settimane si scambiano vivaci scortesie. Riguarda anche il Partito democratico, laddove gruppo di sindaci – da Dario Nardella a Giorgio Gori – è pronto a far mettere in votazione un documento che chiede “l’eliminazione del vincolo di mandato per gli amministratori”.

“L’elezione diretta dei sindaci e dei consiglieri comunali introdotta con la legge 25 marzo 1993, n. 81, ben trent’anni fa, ha cambiato, concretamente e in profondità, sia il modo di amministrare i Comuni che il rapporto tra i cittadini e il governo locale”, scrivono i sindaci del Pd: “Uno straordinario mutamento positivo che ha rafforzato il rapporto fra elettore ed eletto, ha garantito  la stabilità e continuità dei mandati, archiviando una stagione che vedeva governi comunali instabili, con un susseguirsi di sindaci in balia di “ricatti” della politica”. L’elezione diretta dei sindaci ha rappresentato e rappresenta “un modello di governo che ha consentito un importante maturazione della democrazia locale, dando attuazione ai principi costituzionali di buon andamento dell’azione amministrativa”.

È stato introdotto, insieme all’elezione diretta del sindaco a opera della legge del 25 marzo 1993 un vincolo di due mandati del sindaco, “valutabile in considerazione di quella fase storica caratterizzata da una forte animosità nei confronti del ceto politico e dai timori per le possibili controindicazioni legate all’elemento fortemente innovativo, per il sistema, rappresentato dall’elezione diretta. Vincolo di mandato successivamente confermato per l’attuale forma di governo delle Regioni italiane, anch’essa caratterizzata, come noto, dalla previsione di un analogo limite (due mandati) in relazione ai Presidenti eletti direttamente”.

Tale vincolo di due mandati, dicono ancora i sindaci, “rappresenta una vera anomalia dell’ordinamento italiano, in quanto è rinvenibile nell’ambito dei Paesi europei solo in Portogallo (tre mandati) e in Polonia”. Interventi successivi hanno modificato la normativa, distinguendo i comuni con popolazione fino a 5 mila abitanti (non c’è più alcun limite di mandato per i sindaci), quelli con popolazione da 5.001 fino a 15 mila abitanti (limite di tre mandati consecutivi) e infine quelli con oltre 15 mila abitanti (per i quali c’è il limite dei due mandati consecutivi). “Pertanto, la situazione attuale vede una disparità di trattamento nei confronti dei sindaci di 730 Comuni su un totali di 7.896 Comuni italiani”. A questa disparità un gruppo di amministratori del Pd vorrebbe porre rimedio. Anche per non lasciare tutta la discussione in mano alla destra.

Tra le motivazioni addotte dai sindaci favorevoli al terzo mandato ce ne sono anche alcune politiche, come la continuità politica (“Il terzo mandato potrebbe consentire ai sindaci di completare progetti a lungo termine e programmi iniziati durante i loro mandati precedenti, garantendo una maggiore continuità e stabilità nell’amministrazione locale”), nonché la risposta alle esigenze locali (“In alcune circostanze, specialmente in contesti caratterizzati da particolari sfide o opportunità, mantenere un sindaco ben consolidato potrebbe essere la risposta migliore per rispondere efficacemente alle esigenze specifiche della comunità locale”).

La discussione a destra è più sentita e animata. La Lega ha presentato un emendamento al decreto Elezioni (quello che stabilisce l’election day l’8 e 9 giugno) per abolire il terzo mandato per i presidenti di Regione. Tuttavia il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Tommaso Foti, ospite di Rai Radio1, ha detto che non vede l’urgenza di questo emendamento, quindi per quest’anno non se ne farà di nulla: “Faccio notare che si tratta di un dl”, quindi gli emendamenti “dovrebbero riferirsi al caso di necessità e urgenza per i quali il decreto viene adottato ai sensi della Costituzione. Ritengo che, allo stato attuale, non sia possibile riconoscere i requisiti di necessità e urgenza che dovrebbero portare la politica a pronunciarsi in un senso o nell’altro. Se il governo avesse ritenuto di dover adottare il provvedimento d’urgenza l’avrebbe inserito direttamente nel dl”. Se ne discuterà questa settimana, in un pericoloso giro di incroci fra terzo mandato e disegno di legge sul premierato. Dove, pure lì, i problemi non mancano nella maggioranza.

L’ex presidente del Senato Marcello Pera, fortemente polemico sul premierato voluto da Giorgia Meloni, ha presentato due emendamenti. In uno di questi c’è scritto che gli atti del presidente della Repubblica “sono controfirmati dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità”; non sono controfirmati “la nomina del presidente del Consiglio, la nomina dei giudici della Corte costituzionale, il decreto di scioglimento delle Camere, salvo che lo scioglimento non costituisca atto dovuto, la concessione della grazia e la commutazione delle pene, il decreto di indizione delle elezioni e dei referendum, i messaggi al Parlamento e il rinvio delle leggi alle Camere”. A differenza di altri emendamenti, quelli presentati da Pera non sono frutto di una trattativa politica interna ai partiti della maggioranza, ma di un’iniziativa dello stesso ex presidente del Senato. A dimostrazione di quanto l’agitazione sulle riforme sia consistente anche a destra. (Public Policy)

@davidallegranti