Il proporzionale, una buona idea che rischia di rimanere un miraggio

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – La storia della Seconda Repubblica è stata, per molti versi, la storia dell’illusione maggioritaria, cioè della speranza, rivelatasi vana, che con un’operazione di ortopedia istituzionale fosse possibile correggere malformazioni e disfunzioni del sistema politico italiano.

Dalla Prima Repubblica, infatti, si uscì attraverso un’esplicita dichiarazione di sfiducia popolare nei confronti del sistema elettorale proporzionale, accusato di essere causa di frammentazione e instabilità politica e di inefficienza nell’azione di governo. Il referendum Segni-Pannella per la trasformazione del sistema elettorale in senso uninominale e maggioritario (a turno unico) ottenne nel 1993 un consenso plebiscitario: 82,74% di sì.

Da allora, tutte le leggi elettorali per il Parlamento nazionale e per regioni, province (fino a che elette a suffragio universale) e comuni sono state adeguate al paradigma maggioritario, con una sostanziale differenza. Se sul piano locale si è imposto anche un sistema di elezione diretta di sindaci e presidenti di Province e Regioni, sul piano nazionale, in assenza del necessario adeguamento costituzionale, la “presidenzializzazione di fatto” dello scontro elettorale è rimasta priva di una clausola di salvaguardia istituzionale.

Quindi sistemi misti come il Mattarellum (3/4 uninominale maggioritario, ¼ proporzionale) e il Rosatellum (2/3 proporzionale e 1/3 maggioritario) e, tra l’uno e l’altro, un sistema proporzionale con premio di maggioranza per la coalizione vincente come il cosiddetto Porcellum (dichiarato all’inizio del 2014 incostituzionale dalla Consulta) hanno fortemente polarizzato la competizione elettorale, ma si sono limitati a prevedere un’investitura politica, non un’elezione formalmente diretta del capo dell’esecutivo. E hanno originato, quasi sempre, i tanto esecrati “ribaltoni”, che invece in termini costituzionali sono perfettamente conformi al funzionamento della democrazia parlamentare. Né sono mancati in anni recenti anche in altre democrazie parlamentari europee, con sistemi elettorali sia maggioritari (Regno Unito, 2010-2015, Governo Cameron I), sia proporzionali (Germania, 2013-2021, Governi Merkel III e IV), esecutivi di coalizione tra partiti e schieramenti presentatisi come radicalmente alternativi alle elezioni.

In ogni caso, dopo quasi trent’anni occorre prendere atto che, nelle sue diverse versioni, il maggioritario all’italiana non ha mantenuto le promesse ed ha finito per rappresentare un esempio da manuale di eterogenesi dei fini. Non ha stabilizzato il quadro politico, che ha subito molteplici e repentini rovesci, con la nascita e la morte di una miriade di partiti, grandi e piccoli, nel giro di pochissimi anni.

Ha ulteriormente parcellizzato la rappresentanza, che nella stagione più disordinata e convulsa della crisi della partitocrazia primo-repubblicana, cioè nel 1992, vedeva in Parlamento 12 partiti e nel 2021 ne annoverava ben 30: non solo rappresentati nelle Camere, ma iscritti al Registro dei partiti e titolari del diritto alle erogazioni del due per mille.

Ha tribalizzato, non moderato e civilizzato, la dialettica politica, spingendo il consenso sulle estreme, anziché al centro, e innescando fenomeni non di competizione, ma di delegittimazione politica reciproca tra i principali leader e schieramenti. Ha incentivato comportamenti trasformistici, paralizzato l’azione di governo e portato, quasi in ogni legislatura, alla formazione di maggioranze composite e trasversali, diverse da quelle promesse agli elettori e di esecutivi tecnico-istituzionali.

Quanti sul piano dottrinario ancora sostengono il sistema maggioritario ne addebitano i risultati scadenti e per certi versi disastrosi alla natura ibrida (non c’è mai stato in Italia un maggioritario puro, ma sempre imbastardito da una meccanica proporzionale e coalizionale) e all’assenza di corollari costituzionali coerenti (il presidenzialismo, il premierato, o almeno un potere di scioglimento delle Camere per il presidente del Consiglio).

Sono tesi tecnicamente molto serie, ma sottovalutano che, in tutte le dinamiche istituzionali, anche le più costrittive, il driver rimane il comportamento politico di partiti e elettori e che quindi cambiare la politica “da dentro” – renderla più responsabile, meno particolaristica, meno short-termistica, meno rissosa – non è cosa che si possa fare “da fuori” attraverso leggi elettorali e gabbie costituzionali astrattamente virtuistiche.

Al contrario, oggi il proporzionale sembra realisticamente più adeguato alla natura del nostro sistema politico, più adatto ad arginarne le dinamiche belliche o centrifughe e soprattutto a scongiurare il rischio che il cortocircuito tra la logica del “the winner takes it all” e la febbre demagogico-populista dell’elettorato metta a rischio la tenuta della nostra democrazia.

Al di là di queste considerazioni, sul piano politico, molto più semplicemente, continua a sostenere il maggioritario chi oggi pensa di vincere e prova a lavorare per il suo smantellamento chi con il Rosatellum in vigore pensa di non avere chances. Chi siano gli uni e gli altri è presto detto.

Secondo l’ultima media settimanale Youtrend, FdI, Lega e FI raccoglierebbero i voti del 45,5% degli italiani. Pd, M5s e Articolo 1 sarebbero oltre nove punti sotto, al 36,3%. È vero che un potenziale campo largo progressista potrebbe teoricamente contare anche su forze oggi all’opposizione, come Sinistra italiana (2,1%) e i Verdi (1,8) e sull’apporto di Azione/+Europa (4,2%) e Italia viva (2%); però almeno queste ultime due forze sono dichiaratamente contrarie a un’alleanza elettorale con il M5s e nel Pd ragionevolmente si teme che un’alleanza demo-grillina farebbe elettoralmente il gioco di Calenda e Renzi e appannerebbe l’immagine riformista dei democratici.

Al contrario, una legge elettorale proporzionale con uno sbarramento alto (al 4 o al 5 per cento) permetterebbe al Pd di trasformarsi in una sorta di “partito di coalizione” e di offrire ospitalità e elezione certa a qualche esponente di Sinistra italiana, Verdi e Art.1 (tutti lontani dallo sbarramento) in cambio della non presentazione dei rispettivi partiti. Così il Pd potrebbe giocarsi con maggiori probabilità di successo la battaglia da primo partito con FdI.

D’altra parte, il M5s per recuperare consensi ha scelto una strada sempre più antagonista e di rottura – sulla guerra, sull’ambiente, sulla spesa pubblica… – e si sente limitato da un’alleanza preventiva con i democratici e quindi preferirebbe correre in solitaria, senza pregiudiziali programmatiche da imporre o da subire.

Però Pd, M5s e Leu (Articolo 1) in Parlamento non hanno voti sufficienti per cambiare la legge elettorale e una modifica unilaterale del sistema di voto, magari pescando dagli ampi serbatoi dei gruppi misti di Montecitorio e Palazzo Madama, porterebbe comunque a un’immediata crisi di governo.

Dunque Letta (a malincuore, vista la sua dichiarata fede maggioritaria), Conte e Speranza stanno provando a sondare se tra gli alleati del centrodestra c’è qualcuno disponibile ad aprire, proprio sulla legge elettorale, una faglia in una coalizione che sembra tutt’altro che compatta dal punto di vista politico. Gli indiziati speciali sono Salvini e Berlusconi, che patiscono la conquistata primazia di Giorgia Meloni.

Al di là delle smentite, già formalmente arrivate, da parte degli interessati e dei loro luogotenenti, è però difficile immaginare che Lega e Forza Italia facciano una scelta che Meloni potrebbe descrivere come un tradimento e una distruzione del centrodestra, puntando a raccogliere quote di consenso anche negli elettorati leghisti e forzisti, anch’essi sensibili al grido di battaglia: “Mai con la sinistra”. Inoltre, Lega e Forza Italia hanno la possibilità – allo studio da mesi – di consorziarsi elettoralmente per diventare insieme la lista più votata e quindi per sbarrare a Meloni la strada di Palazzo Chigi.

Insomma, l’unica speranza per cambiare la legge elettorale è che quanti pensano che il proporzionale non serva personalmente loro, si convincano che servirebbe per scongiurare patriotticamente i pericoli di un bipolarismo a chi la spara più grossa. Ma se questo non accadrà – ed è decisamente difficile che accada – il ritorno al proporzionale rimarrà un miraggio. (Public Policy)

@carmelopalma