di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – Quando scese in campo, ormai trent’anni fa, iscrivendo la propria impresa politica in quella mitografia conservatrice, che gli consentiva di rappresentare plasticamente l’alternativa ai post-comunisti, Berlusconi non sapeva e – per la considerazione che aveva di sé – certamente non pensava che, a conti fatti, si sarebbe dimostrato un attore migliore di Reagan, ma un politico assai meno “rivoluzionario”.
La verità è che Berlusconi non ha mai davvero pensato che la politica fosse una cosa seria e non la semplice sovrastruttura ideologica del rapporto tra gli interessi privati (suoi e di tutti) e il potere pubblico (cioè di nessuno e di chi se lo prende). Era in questo il capitalista italiano perfetto per i marxisti reali e immaginari della sinistra italiana, perché dava davvero mostra di credere, con una certa sfrontatezza, allo Stato come “comitato d’affari della borghesia”, a differenza degli Agnelli e dei De Benedetti, che dissimulavano l’affarismo politico nella sprezzatura e nella superbia e soprattutto della borghesia avevano un’idea meno popolare e democratica di quella di un self made man che Milano 2, la tv commerciale e Publitalia le aveva inventate, non ereditate. Berlusconi invece non si faceva problemi a raccontare il passaggio da Finivest a Palazzo Chigi come una necessità imposta dal collasso della Prima Repubblica e dall’esigenza di salvaguardare lo stato borghese dall’occupazione comunista e le imprese di famiglia da un esproprio minacciato come rivincita per l’approvazione della legge Mammì.
Non è stato un grande uomo di Stato per tante ragioni soggettive e oggettive, e non tutte colpevoli, ma in primo luogo perché non ha mai pensato che la politica fosse una cosa grande e diversa dal teatrino del potere, che un po’ irrideva e un po’ rappresentava, interpretando tutte le parti in commedia. Questa è la spiegazione forse più realistica e generosa del suo totale e olimpico agnosticismo, cioè della sua disponibilità a tutto e della sua capacità di farsi piacere tutti – Bush e Obama come Putin e Gheddafi – purché le cose “funzionassero”. E per Berlusconi le cose funzionavano se si poteva – di qualunque cosa si parlasse, della guerra in Ucraina o delle licenze dei taxi a Roma – garantire il business as usual, senza inciampi, senza interferenze, senza inutili ostinazioni.
In questo, non solo nella simpatia irresistibile e sinistra da personaggio di Dino Risi, Berlusconi era un vero arci-italiano. Uno convinto che la politica sia una forma di senseria e che fare questioni di principio o di valore dove ci sono solo questioni di fatto o di utilità sia solo uno spreco di tempo e di denaro: un idealismo da coglioni o un’ipocrisia da “comunisti”. E lui coglione non era e meno che mai ipocrita, anche se aveva quel modo caratteristico di essere sincero senza mai dire la verità e di essere autentico solo quando recitava che ne faceva, come usa dire oggi, un personaggio parecchio polarizzante, molto amato, molto odiato e raramente rispettato.
Le parole allucinanti di Berlusconi sull’Ucraina e su Zelensky non sono state l’ultimo delirio di un vecchio fuori di testa, ma l’ennesimo e disperato cenno d’intesa a un’Italia che vuole solo essere lasciata in pace e un gesto di autentico e profondo disprezzo per i leader occidentali che sono così stupidi da pensare che la pace (cioè, appunto, il business as usual) non valga nemmeno un pezzo d’Ucraina, qualche striscia di Donbass, e quella Crimea che dopotutto i russi avevano regalato all’Ucraina. Il putinismo triste, solitario y final dell’ultimo Berlusconi è terribile non nel suo cinismo, ma nel suo candore.
Le idee politiche in Berlusconi sono sempre state fungibili e reversibili e con l’andare del tempo sempre peggiori, anche perché non è mai cambiata la sua pessima idea della politica in sé e la sua disponibilità ad adeguarsi a ogni cambiamento e a farsi, a seconda delle circostanze e convenienze, concavo e convesso, come amava ripetere. Il suo centro-destra è partito nel ‘94 liberal-libertario mosso dalla fiducia e dalla speranza ed è diventato prestissimo, in una decina d’anni, un baraccone reazionario pigliatutto animato dall’invidia e dalla paura. Ma questo baraccone funzionava, perché vinceva, cioè “vendeva” e quindi a Berlusconi andava benissimo così.
Che la politica non meritasse troppi impegni e troppi pensieri Berlusconi l’ha dimostrato anche con i suoi partiti, montati, smontati e rimontati come costruzioni usa e getta, alla pari degli apparati logistici della sua leadership carismatica e delle corti dei nani, delle ballerine, dei portaordini e dei caporali del “Meno male che Silvio c’è”. La sua morte segnerà la fine pressoché immediata di Forza Italia (a meno che la famiglia non scelga autolesionisticamente una linea di successione dinastica, con Marina). Non segnerà invece la fine del suo impero economico, che Berlusconi ha gestito con ben diversa serietà, appunto perché pensava che gli affari fossero – a differenza della politica – una cosa seria. Per tutte queste ragioni e per la mole mediatica del personaggio, smisuratamente più grosso e ingombrante di tutti gli antagonisti e comprimari con cui ha dovuto misurarsi, Berlusconi ha forse guadagnato più consenso e riscosso più discredito di quanto ne meritasse.
Sine ira et studio magari tra qualche decennio si concluderà che il berlusconismo è stato semplicemente una delle manifestazioni – la più durevole e eclatante, non la più tossica, né la più sordida – di un trentennio politicamente da buttare.
@carmelopalma