di Paolo Martone
ROMA (Public Policy / Policy Europe) – Quella tra Viktor Orbán (nella foto) e il Ppe è un po’ la cronaca di un divorzio annunciato, ma la fine della storia comunque ha destato sorpresa. La vicenda ha subito un’accelerazione mercoledì scorso, quando i Popolari hanno approvato un cambiamento delle regole interne per semplificare l’iter di sospensioni ed espulsioni, e consentire inoltre di escludere un’intera delegazione invece che singoli deputati, se un movimento non rispetta i valori dello Stato di diritto (e Budapest è da tempo nel mirino dell’Ue proprio per questo motivo).
Il premier ungherese, evidentemente fiutando il pericolo imminente, ha preferito far uscire la delegazione di Fidesz invece di essere cacciato, descrivendo le modifiche come “chiaramente ostili”. “Non accettiamo lezioni. Fidesz non è più coerente con i valori dell’Europa e del Partito”, gli ha risposto il tedesco Manfed Weber, presidente del gruppo, dicendosi comunque “dispiaciuto” per l’abbandono. La vicenda si trascinava da un po’, e il partito del leader magiaro era comunque sospeso dal Ppe già da marzo 2019, quando il Governo ungherese denunciò presunti “piani di immigrazione di massa” orditi da Bruxelles (e nell’occasione finirono nel mirino Jean-Claude Juncker, all’epoca presidente della Commissione, e il miliardario-filantropo George Soros.
I Popolari preferirono evitare soluzioni drastiche in vista delle elezioni europee, in seguito alle quali si sono confermati primo partito dell’Eurocamera, vedendo poi un loro rappresentante – Ursula von der Leyen – diventare presidente della Commissione Ue, con i voti anche dei deputati di Fidesz. La convivenza però è apparsa sempre più insostenibile, e già un anno fa i popolari danesi, svedesi, belgi, finlandesi, lussemburghesi, olandesi, slovacchi, greci e cechi avevano scritto a Donald Tusk, presidente del Partito ed ex presidente del Consiglio europeo, per chiedere l’espulsione di Fidesz. Il motivo all’epoca era la legge approvata dal Parlamento ungherese che permetteva al Governo di estendere indefinitamente lo stato di emergenza.
Tema su cui lo stesso Tusk – “nemico” di Orbán – si era dimostrato molto sensibile, e infatti in una lettera ai partiti membri del Ppe aveva affermato che “sfruttare la pandemia per costruire uno stato di emergenza permanente è politicamente pericoloso e moralmente inaccettabile”, invitandoli poi a riconsiderare la loro contrarietà ad espellere Fidesz. A lungo restii ad usare le maniere forti sono stati proprio molti tra i partiti più grandi all’interno del Ppe, ovvero la Cdu tedesca, i Repubblicani francesi, i Popolari spagnoli e Forza Italia. Alla fine però le nuove regole sono state approvate a larga maggioranza (148 voti a favore su 180 voti, quindi con l’84% di favorevoli), superando la maggioranza dei due terzi richiesta, segno che comunque la perdita di Fidesz era considerata inevitabile. “Non agendo per anni, il Ppe ha permesso – ad Orbán – di assumere il controllo dei media in Ungheria, violare i diritti fondamentali, minare la democrazia e vessare la società civile”, ha comunque attaccato su Twitter la capogruppo dei Socialisti, Iratxe Garcia Perez.
E adesso che succede? Con l’uscita di Fidesz il Ppe ha perso 12 eurodeputati in un colpo solo, scendendo da 187 a 175 seggi. Resta sempre il primo gruppo, ma i Socialisti & Democratici sono a quota 145, e con qualche ingresso (come i deputati M5s) potrebbero tallonarli ancora di più. C’è poi il rischio che altri deputati (come gli sloveni del premier Janez Jansa) possano lasciare il gruppo proprio per seguire Fidesz. Contemporaneamente, sarebbe in corso un avvicinamento tra la Lega e i Popolari, favorito dall’appoggio del Carroccio al Governo Draghi. Con i suoi 27 parlamentari il partito guidato da Matteo Salvini farebbe toccare al Ppe quota 202, ma bisogna vedere se le componenti più moderate del Ppe sarebbero disposte ad accogliere chi al momento è alleato con Marine Le Pen e con l’estrema destra tedesca. Appare al momento incerto anche l’approdo dei 12 parlamentari di Fidesz, che fanno gola al gruppo Identità e democrazia (Id) – di cui fa parte la Lega – che con i nuovi arrivi rafforzerebbe la posizione di quarta forza dell’Eurocamera, passando da 74 a 86 seggi.
Altra ipotesi vedrebbe l’ingresso di Orbán nel gruppo dei Conservatori (Ecr), una famiglia politica che pochi mesi fa ha eletto come presidente Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, e che può annoverare tra le sue fila anche i polacchi di Diritto e giustizia, partito che attualmente a Varsavia esprime sia il premier che il capo dello Stato. Tra i Governi di Polonia e Ungheria – entrambi di destra, ed entrambi in rotta di collisione con Bruxelles per violazioni dello Stato di diritto – c’è grande sintonia su molti aspetti, senza contare che entrambi i Paesi fanno parte del Gruppo di Visegrad (insieme a Repubblica Ceca e Slovacchia). Con l’arrivo di Fidesz i Conservatori raggiungerebbero quota 75 deputati, superando i Verdi – che ne hanno 73 – e diventando il quinto gruppo dell’aula, ma l’adesione di Orbán a questo gruppo invece che a Id appare più probabile anche per altri motivi. Ecr è sicuramente meglio inserito nella “stanza dei bottoni” di Bruxelles rispetto a Identità e democrazia (che viceversa sembra non toccare palla), ha un commissario europeo (il polacco Janusz Wojciechowski, titolare dell’Agricoltura), due presidenti di commissione nel Parlamento Ue, ed è affiliato a livello internazionale con i Repubblicani Usa e i Conservatori britannici di Boris Johnson. Insomma, conta decisamente di più sullo scenario europeo e mondiale. Non proprio un dettaglio, e questo per Orbán potrebbe fare la differenza. (Public Policy / Policy Europe)
@PaoloMartone