di Marco Valerio Lo Prete
ROMA (Public Policy) – Il presente e il futuro prossimo dell’economia sono immateriali, tutto digitale e cloud. Anzi no, il materiale reclama ancora il suo ruolo, vedi alla voce terre rare o microchip. In una simile disfida, a dire il vero un po’ scolastica, rischiamo di perdere di vista uno dei più antichi motori immobili dello sviluppo: la demografia. Eppure, anche solo a giudicare da una serie di indizi delle ultime settimane, tra leader politici e analisti economici sembra riemergere la consapevolezza che l’andamento di nascite e decessi, di ringiovanimento o invecchiamento di una popolazione, sia una variabile decisiva per lo sviluppo.
Iniziamo dall’Italia dove, probabilmente per la prima volta, un ministro dell’Economia ha direttamente collegato l’andamento (di nuovo stentato) della crescita economica al malessere demografico che attanaglia il Paese. Giovedì scorso, di fronte alla platea di Atreju, il ministro Giancarlo Giorgetti ha detto: “È vero che la crescita del Pil è asfittica ma ricordiamoci sempre che i Paesi in declino demografico, e purtroppo l’Italia lo è, fanno fatica a fare Pil”. Il titolare di via XX Settembre ha aggiunto che “se valutatissimo il Pil pro capite troveremmo l’Italia messa meglio ma questo non ci può consolare, questo è un problema gravissimo e non possiamo nasconderlo sotto il tappeto”. Abituata a ragionare – quando va bene – degli effetti del declino demografico sul futuro del welfare pubblico, la classe politica nazionale finora sembrava aver glissato a proposito delle conseguenze della denatalità e dell’invecchiamento sulla forza lavoro (che si riduce) e sull’attitudine a innovare (che diminuisce) di tutto il nostro ecosistema economico, in definitiva sulla capacità del Paese di generare crescita. Le parole di Giorgetti segnalano una nuova consapevolezza istituzionale e politica in materia.
Perfino per interpretare i fattori internazionali che incidono maggiormente sulla nostra congiuntura, dal rallentamento tedesco alla crisi dell’automotive europeo, si rafforzano spiegazioni demografico-centriche. Pietro Reichlin ha osservato sulla Stampa che “il Pil degli Stati Uniti è cresciuto mediamente di quasi il 3% nel corso di questi ultimi tre anni e la Cina viaggia intorno al 5%. L’area Euro cresce, invece, tra lo 0,4% e lo 0,8%. È evidente – spiega l’economista dell’Università Luiss – che l’Europa paga, più degli altri, il costo della stagnazione demografica, l’invecchiamento della popolazione ed il calo della forza lavoro. Gli analisti stimano, ad esempio, che una buona parte della diminuzione della vendita di auto si deve a questi fattori”. La Bundesbank venerdì scorso ha tagliato le stime di crescita del Pil della Germania a -0,2% nel 2024, prevedendo nel 2025 una crescita dello 0,2% per il nostro principale partner commerciale. Il commento di Franziska Palmas, Senior economist per l’Europa di Capital Economics, è che nella prima economia del continente “la perdita di competitività dell’industria e un andamento demografico avverso controbilanceranno qualsiasi spinta che venisse da una ripresa dei redditi reali delle famiglie o da un’espansione monetaria”. Come a dire che, con una demografia che rema contro, certi strumenti classici della politica economica risultano spuntati.
Un fattore così dirompente da spingere Angela Merkel, cancelliera federale della Germania dal 2005 al 2021, a cambiare idea nientemeno che sul “freno al debito pubblico” (Schuldenbremse) inserito nel 2009 nella Costituzione tedesca. Parliamo di una delle riforme simbolo degli anni della crisi dei debiti sovrani, l’espressione forse più rappresentativa della politica di rigore e ortodossia fiscale propugnata allora da Berlino. Ebbene nella sua autobiografia “Libertà”, di recente pubblicazione, Merkel osserva che l’idea del freno al debito pubblico rimane teoricamente giusta in vista delle future generazioni, “tuttavia, per evitare lotte per la distribuzione nella società e per adattarsi ai cambiamenti nella struttura dell’età della popolazione, il freno al debito deve essere riformato in modo che sia possibile assumere un debito più alto per gli investimenti futuri”. Detto in altre parole: per evitare conflitti sui livelli di spesa pubblica, con le nuove pressioni a spendere per Difesa e infrastrutture, e gli impegni stabilmente crescenti per pensioni e welfare di una popolazione che invecchia, sarebbe meglio rivedere vincoli appropriati per una composizione demografica che presto non ci sarà più. Il cambiamento demografico, di nuovo, appare il motore immobile di una vera e propria rivoluzione di politica economica.
@marcovaleriolp