di Marco Valerio Lo Prete
ROMA (Public Policy) – Roma. Euroscettici contro euroentusiasti, filotedeschi contro anti-tedeschi, sovranisti contro internazionalisti, pessimisti contro ottimisti. Quando si parla d’Europa, il dibattito italiano – e non solo – è sempre più costretto dentro contrapposizioni che hanno l’ambizione di assegnare a ciascuno una casacca con la quale si possa comodamente disputare la partita ideologica del momento. Sia essa quella sul deficit pubblico consentito, o sulla redistribuzione dei sussidi comunitari, o sulla governance dell’Eurozona, o sulle regole di Bruxelles per gli istituti di credito, o sulla politica estera dell’Unione europea, eccetera. Su ciascuno di questi temi, le etichette di cui sopra sono perfette per scaldare gli animi, sono ambite per ottenere un’immediata riconoscibilità sui media e agli occhi dell’opinione pubblica, sono infine adatte perfino a essere scambiate di volta in volta fra i contendenti che nel tempo possono passare da una squadra all’altra. Eppure, a dieci anni di distanza dall’inizio della crisi economica più grave e dalla crisi d’identità più profonda che abbiano mai investito il progetto comunitario, ci sono alcuni numeri che – meglio di tanti virtuosismi retorici – aiutano a capire come siano cambiati gli equilibri di potere nel Vecchio continente. In quale direzione? Per quello che interessa in questa sede, i dati segnalano tutti un indebolimento relativo del nostro Paese rispetto ai partner più importanti dell’Unione europea.
Iniziamo dal vecchio e caro Prodotto interno lordo (Pil). Nel 2017, il valore di mercato di tutti i beni e i servizi finali prodotti nell’Unione europea, è stato pari 15.300 miliardi di euro, 2.300 miliardi in più che nel 2007, quando la crisi era ancora di là da venire. A dieci anni di distanza dai primi scricchiolii nel mercato dei mutui americani che poi sono stati avvertiti anche con maggiore forza da questa parte dell’Oceano Atlantico, oltre metà di questi 15.300 miliardi di Pil sono generati da tre Paesi: Germania, Regno Unito e Francia. Berlino, con i suoi 3.300 miliardi di Pil dello scorso anno, è al primo posto della classifica e da sola raggiunge il 21,3% di tutto il valore di beni e servizi prodotti nell’Ue; la Francia si ferma al 14,9%; l’Italia all’11,2% del Pil europeo. Dieci anni fa, la Germania era responsabile del 19,3% del Pil europeo e oggi del 21,3% (quindi ha guadagnato nell’ultimo decennio due punti percentuali, con ogni punto che nel 2017 vale circa 150 miliardi di euro di Pil), la Francia era al 15% e quindi essenzialmente dov’è oggi (14,9%), l’Italia contava per il 12,4% del Pil europeo nel 2007 e dieci anni dopo si ferma all’11,2% (quindi ha perso terreno). La Spagna, arretrata dall’8,3% del Pil complessivo dell’Ue nel 2007 al 7,6% di oggi, ha perso meno di noi. Da notare che, seppure su livelli assoluti più bassi, gli scalpitanti Paesi del gruppo Visegrad – Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria – hanno tutti visto accrescersi (o nel peggiore dei casi mantenuto intatto) il loro peso relativo in termini di Pil in un’Europa che cresce.
Anche nei modelli più semplici utilizzati dagli economisti per studiare l’andamento della crescita, la popolazione ha un posto di rilievo (accanto all’innovazione tecnologica). L’Unione europea contava 498,3 milioni di abitanti nel 2007, oggi raggiunge i 511,5 milioni. La Germania, stabile attorno agli 82,5 milioni di abitanti, è passata dal costituire il 16,5% della popolazione totale dell’Ue nel 2007 al 16,1% del totale dell’Ue nel 2017. Berlino nel 2015 ha modificato una traiettoria in rapida discesa, con l’afflusso straordinario di richiedenti asilo dalla Siria e dal Medioriente, facendo lievitare la popolazione di residenti di un milione di unità in soli 356 giorni. La Francia, con una popolazione in aumento da 63,6 milioni di abitanti a 67 milioni di abitanti, è quella che in percentuale è cresciuta di più nel gruppo di testa, passando dal 12,8% del totale al 13,1% dieci anni dopo. L’Italia aveva 58,2 milioni di abitanti nel 2007 (11,7% del totale Ue) e ne ha 60,5 milioni dieci anni dopo (11,8%). Dal punto di vista demografico, i mutamenti avvenuti a Berlino e Roma sono così lievi da non attutire del tutto i problemi sorti nel frattempo per la sostenibilità dello Stato sociale. Tuttavia i ritmi di sviluppo divergenti e le differenti politiche di gestione dei conti pubblici hanno fatto sì che lo stesso tipo di sfide abbia avuto finora un impatto diverso. Basti dire che negli ultimi dieci anni il rapporto fra debito pubblico e Pil della Germania è passato dal 63,7% del Pil al 64,1%, mentre lo stesso rapporto in Italia partiva nel 2007 dal 99,8% ed è arrivato nel 2017 al 131,8%.
Gli effetti sul braccio di ferro tra Bundesbank e Bankitalia in Bce
Gli andamenti di queste due prime grandezze, Pil e popolazione, sono rilevanti di per sé, ma potrebbero cristallizzarsi presto – e con tutti i crismi dell’ufficialità – in un cambiamento di equilibri all’interno di una delle istituzioni più potenti dell’Unione europea, vale a dire la Banca centrale europea (Bce). Il prossimo anno, infatti, come accade ogni cinque anni, saranno riviste le quote di partecipazione delle Banche centrali nazionali al capitale della Bce; tali quote sono calcolate secondo uno schema che riflette il peso percentuale del rispettivo Stato membro nella popolazione totale e nel prodotto interno lordo dell’Ue, due determinanti che incidono in pari misura. L’Italia è diventata decisamente più “leggera” in termini di Pil dell’Ue ed è rimasta stabile in termini di popolazione; la Germania ha guadagnato molto peso in termini di Pil e ne ha perso pochissimo dal punto di vista demografico. Dunque Berlino – la cui quota di partecipazione al capitale Bce è adesso pari a 17,9973 – potrebbe diventare ancora più influente all’Eurotower; invece l’Italia – la cui quota è oggi pari a 12,3108 – potrebbe perdere influenza. Per di più in una situazione in cui, per esempio, l’attuale programma di Quantitative easing prevede che la Bce acquisti titoli di debito pubblico degli Stati membri dell’Eurozona in proporzione alle quote del capitale sociale della Bce detenute dalle Banche centrali nazionali.
Le aspettative dei lavoratori
Crescita economica e popolazione non vanno a braccetto soltanto nei corridoi dell’Eurotower, è ovvio, ma influenzano fortemente la sorte attuale e le aspettative future dei lavoratori. Anche da questo punto di vista, la recente crisi economica non ha mancato di lasciare il segno sul tessuto sociale dei Paesi di testa dell’Unione europea. Si prenda il numero di persone, di un’età compresa fra i 20 e i 64 anni, che hanno un’occupazione. Gli occupati tedeschi erano 36,1 milioni nel 2007, sono diventati 39,4 milioni nel 2017; in Francia sono passati da 25 milioni a 25 milioni e mezzo; in Italia sono rimasti all’incirca 22,3 milioni.
Considerato l’andamento demografico che abbiamo descritto negli stessi Paesi – e cioè un andamento statico in Germania, appena crescente in Italia e più dinamico in Francia – un tale incremento della forza lavoro tedesca può essere stato reso possibile soltanto da un massiccio aumento della partecipazione dei residenti alla forza lavoro. Così effettivamente è stato: dal 2007 al 2017, il tasso di occupazione dei 20-64enni in Germania è passato dal 72,9% al 79,2%, in Francia dal 69,9% al 71%, in Italia è calato dal 62,7% al 62,3%.
Il nostro Paese, è vero, rimane la seconda potenza manifatturiera dell’Unione europea, ma con fondamentali simili a quelli visti è ineludibile una perdita di peso anche su questo fronte. Il valore aggiunto della nostra industria manifatturiera, se si escludono le costruzioni, nel 2007 ammontava al 12,7% di quello dell’industria manifatturiera di tutto il Vecchio continente, oggi si ferma all’11%; la Francia, nello stesso periodo, è scesa più lentamente dall’11,2% al 10,6%; la Germania, nello stesso arco di tempo, è salita dal 25,9% al 28,2% del valore aggiunto europeo. Perfino l’export di beni e servizi, che pure è una delle attività trainanti della nostra attuale ripresa, perde peso rispetto a quello tedesco: è passato dal 9,0% al 7,7% di tutto l’export europeo, mentre la Spagna strappava un decimale dal 5,6% al 5,7%, così come il valore del Made in Deutschland passava dal costituire il 21,9% di tutto l’export europeo al 22%.
Ecco dunque un rapido affresco, in chiave comparata europea, del nostro stato di salute economica e sociale a dieci anni di distanza dall’inizio della crisi economica. E’ anche a simili tendenze di medio-lungo termine che analisti e classe dirigente dovranno fare attenzione quando si appresteranno a commentare “colpi bassi”, “raggiri” o “battute d’arresto” che l’Italia potrebbe subire nel prossimo vertice europeo.
@marcovaleriolp