Dimmi che popolazione hai e ti dirò dove vai. Un’analisi demografica delle tensioni tra Stati Uniti, Cina e Italia

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di Marco Valerio Lo Prete

ROMA (Public Policy) – Nel 1094 a Kaifang, capitale della Cina durante il regno della dinastia Song, fu inaugurato un imponente orologio astronomico. Alto dodici metri, azionato dall’acqua, sofisticato nei meccanismi interni e nei dettagli estetici. Una trentina d’anni dopo gli Jurchen invasero la città, seminarono la morte tra la popolazione, alimentarono il caos nell’economia e – tra le altre cose – smantellarono l’orologio monumentale per portarlo nella loro nuova capitale, Pechino. Tuttavia non riuscirono mai a farlo funzionare di nuovo: esso si rivelò troppo complesso per le loro competenze scientifiche e capacità tecnologiche. Così la Cina dovette aspettare il XVII secolo, e l’arrivo dei Gesuiti dall’Europa, per rivedere in funzione degli orologi di quel tipo. Nel frattempo, nel XIII secolo, gli Jurchen furono a loro volta soppiantati dai Mongoli, e anche in quell’occasione non mancarono sconvolgimenti demografici, economici e tecnologici: basti dire che in quell’occasione la popolazione cinese si ridusse drasticamente, passando da circa 100 a 75 milioni di individui.

Le crisi demografiche cinesi e la Grande Divergenza

Episodi come questi stanno spingendo alcuni studiosi a ripensare, o quantomeno a integrare, le spiegazioni della “Grande Divergenza” tra Asia ed Europa. Secondo la teoria classica, la frammentazione politica europea e le continue guerre nel nostro Continente hanno favorito la competizione militare e incentivato lo sviluppo economico, preparando il terreno per il balzo in avanti compiuto dall’Occidente con la Rivoluzione industriale. Adesso invece esperti di economia come Chiu Yu Ko, Mark Koyama e Tuan-Hwee Sng ipotizzano che la struttura imperiale monolitica cinese possa aver ostacolato anche in altro modo “l’accumulazione graduale di conoscenza tecnologica che – secondo la letteratura scientifica sulla crescita – gioca un ruolo così importante nel generare la transizione verso una crescita sostenuta”. Nella realtà asiatica si registrarono episodi di “efflorescenza” sviluppista, come testimonia l’avanzatissimo orologio di Kaifang, ma a mancare fu una minima tenuta del processo di crescita nel corso dei decenni. L’eccessiva variabilità degli andamenti demografici spiegherebbe tale scarsa tenuta. Secondo questo nuovo approccio, le minacce esterne ai confini cinesi erano più gravi rispetto a quelle che attorniavano l’Europa. Tali minacce, associate alla maggiore rigidità istituzionale interna, furono all’origine di forti oscillazioni – e soprattutto contrazioni – del numero di abitanti cinesi, di entità e frequenza maggiore per esempio rispetto alla moria degli Europei per la pestilenza del Trecento. Come ha scritto Angelo Panebianco nel suo volume “Persone e mondi” (Il Mulino), ricostruendo l’annoso dibattito sulla Grande Divergenza, “le più gravi sfide militari che deve fronteggiare la Cina portano periodicamente al collasso dell’Impero e il collasso favorisce crisi demografiche e, per conseguenza, decadenza economica. La Cina è esposta a oscillazioni (demografiche ed economiche) che l’Europa non conosce. Per questo, la Cina non riuscirà, a differenza dell’Europa, a fare il salto di qualità necessario per trasformarsi in una società industriale”.

Stati Uniti vs. Cina? È la popolazione (istruita), stupido!

I mutamenti repentini e profondi della popolazione cinese, dunque, sarebbero stati negli scorsi secoli uno dei motivi fondamentali della storica translatio imperii da Oriente a Occidente. Né è da escludere che ancora oggi essi esercitino la loro influenza sugli equilibri di potere globali. Come ha scritto Nicholas Eberstadt sulla rivista Foreign Affairs, “la demografia non sarà destino ma, per gli studiosi di geopolitica, ci va molto vicino”. Secondo il pensatore dell’American Enterprise Institute, infatti, “anche se certe misure convenzionali della potenza economica e militare ricevono maggiore attenzione, pochi fattori influenzano la competizione di lungo termine tra grandi potenze come fanno i cambiamenti di dimensione, capacità e natura delle popolazioni nazionali”. La compattezza istituzionale cinese e il primato demografico mondiale di quel Paese spiegano tanta parte dell’ascesa economica e geopolitica contemporanea di Pechino. Tuttavia, così come secoli fa gli scompensi demografici cinesi favorirono l’Europa, proprio dagli emergenti squilibri demografici del colosso asiatico potrebbe oggi nascere un vantaggio inatteso per Washington. Vediamo perché.

Il ragionamento di Eberstadt parte da una considerazione di ordine demografico sull’egemonia americana: “Per oltre un secolo, gli Stati Uniti hanno avuto la più numerosa forza lavoro qualificata del pianeta. Non solo. Se si considerano grandezze come gli anni medi di scolarizzazione, sempre gli Stati Uniti hanno avuto una tra le popolazioni più istruite del mondo. Questi fondamentali demografici favorevoli spiegano perché gli Stati Uniti siano emersi come la principale potenza economica e militare dopo la Seconda Guerra Mondiale, e perché occupino quella posizione ancora oggi”. Certo, nell’arco degli ultimi quattro decenni, la Cina si è affermata come il principale concorrente degli Stati Uniti. Economia e demografia le hanno messo il vento in poppa. “La crescita economica cinese a partire dagli anni 70 è attribuita di solito alle politiche di Deng Xiaoping che, dopo essere diventato leader supremo nel 1978, ha spinto il Paese in una direzione più market-friendly. Ma pure la demografia ha giocato un ruolo decisivo. Tra il 1975 e il 2010, la popolazione cinese in età lavorativa (tra i 15 e i 64 anni) è quasi raddoppiata; le ore totali lavorate sono aumentate ancora più rapidamente, mentre il Paese ha progressivamente abbandonato le politiche maoiste che avevano reso il lavoro retribuito meno disponibile e perfino meno attraente”. A questo punto, lo storico sorpasso di Pechino ai danni di Washington sembra dietro l’angolo. Eppure, ancora una volta, proprio uno sguardo ai fondamentali demografici consiglierebbe cautela: “Nell’arco delle ultime due generazioni – osserva Eberstadt – la Cina ha assistito a un collasso della fecondità, aggravato dagli spietati programmi di controllo delle nascite di Pechino. La politica del figlio unico, introdotta nel 1979, è terminata nel 2015, ma il danno era già stato fatto. Il tasso di fecondità totale della Cina è inferiore al tasso di sostituzione, pari a 2,1 figli per donna, almeno dall’inizio degli anni 90. Secondo la Divisione per la Popolazione dell’ONU, il tasso di fecondità totale cinese oggi è a 1,6, ma alcuni analisti come Cai Fang, demografo cinese e membro del Comitato permanente del Congresso nazionale del Popolo, ritengono che sia ancora più basso, a 1,4, cioè il 30% sotto il tasso necessario a ottenere il rimpiazzo”. Nel 2027 la popolazione cinese potrebbe raggiungere il suo picco massimo, mentre la popolazione in età lavorativa si contrae già da cinque anni, e si ridurrà di 100 milioni di unità da qui al 2040. Da questo punto di vista, gli Stati Uniti sembrano in posizione di vantaggio: rimarranno, almeno fino al 2040, il terzo Paese più popoloso del pianeta, e nessun Paese sviluppato sarà nemmeno in grado di avvicinarli. Il tasso di fecondità e i livelli di immigrazione sono più sostenuti che in tutte le altre grandi potenze del G7: al 2040, di conseguenza, gli Americani dovrebbero essere circa 380 milioni, con una popolazione mediamente più giovane di ogni altro Paese ricco. Infine Washington ha un’ampia porzione di popolazione istruita o altamente qualificata, peraltro con una qualità dell’educazione – universitaria in particolare – che è superiore a quelle cinese o indiana. Secondo Eberstadt, però, nemmeno l’America può sedersi sugli allori. La natalità nel Paese ha imboccato una china discendente dal 2008 a oggi, la mortalità è aumentata e gli Stati Uniti “avranno bisogno di rivitalizzare la propria base di risorse umane e ristabilire il proprio dinamismo negli affari, nella sanità e nell’educazione”. Perciò, sostiene l’analista, visto che “gli alleati tradizionali di Washington” come l’Europa e il Giappone “fronteggiano sfide demografiche anche più spaventose”, con conseguenze negative per la loro economia e la loro sicurezza, l’America dovrebbe guardare con maggiore attenzione alle “democrazie emergenti” come l’Indonesia, le Filippine e l’India.

Le attuali crepe della Nato nascono nelle culle 

Washington dovrebbe dunque riorientare le proprie alleanze strategiche anche sulla base degli andamenti demografici, quantomeno ridimensionando la centralità di alleati storici ma demograficamente declinanti. È una follia? Non esattamente, visto che perfino la battaglia diplomatica in corso sul futuro dell’Alleanza Atlantica, con Washington che imputa agli Stati europei di non fare abbastanza per la Nato, può essere letta come uno scontro che travalica la mera contabilità dei bilanci nazionali per la Difesa e affonda le sue radici nelle culle sempre più vuote dell’Europa. Alcuni analisti puntano infatti il dito sulla drastica riduzione degli effettivi militari europei, riconducendola a denatalità e invecchiamento, e non soltanto al progressivo abbandono della coscrizione obbligatoria e al passaggio a un esercito di professionisti: se nel 1990, al termine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti avevano 2.181.000 militari, gli allora alleati europei (inclusa la Turchia) ne avevano 3.509.000, cioè il 60% in più; nel 2018, gli effettivi americani sono scesi del 40% fino a 1.314.000, quelli degli stessi Paesi europei sono calati del 64% fino a 1.283.000. Come ha notato tra i primi l’esperto americano di sicurezza internazionale Jeffrey Simon, la crisi demografica mette ancora più a rischio le tendenze future all’interno dell’Alleanza Atlantica, tra “aumento dell’età media” e “restringimento della coorte anagrafica di quelli in grado di prestare servizio militare” che potrebbero “ridurre la capacità di raggiungere i livelli necessari degli effettivi […] Inoltre tale tendenza potrebbe rendere più complicata la modernizzazione di eserciti piccoli e dispendiosi di professionisti a fronte di costi sociali e sanitari crescenti per tutta la popolazione in ragione dello stesso invecchiamento medio. Alcuni Alleati europei potrebbero effettivamente arrivare a domandarsi se saranno ancora in grado di mantenere un esercito utilizzabile. Tra gli storici membri della Nato, i problemi del calo demografico e dell’invecchiamento saranno particolarmente avvertiti in Italia e in Spagna”. Più di recente alcuni studiosi italiani – Michela Ceccorulli, Enrico Fassi e Sonia Lucarelli – hanno meritoriamente approfondito il tema, concludendo che le evoluzioni demografiche del pianeta porranno nuove e difficili sfide “esterne” per una Nato sempre più senescente: gli effetti destabilizzanti delle migrazioni africane e del peso crescente di popolazioni sempre più giovani nella stessa area; le difficoltà strategiche insite in conflitti che si svolgeranno con maggiore probabilità in aree densamente urbanizzate e che richiederanno – anche per le missioni di peace-keeping e peace-enforcing – forze militari numericamente più consistenti di quelle disponibili. Inoltre gli stessi ricercatori indicano nel rapido invecchiamento di alcuni Paesi europei, fra cui l’Italia, l’origine di sfide “interne” all’Alleanza atlantica: la difficoltà di un reclutamento quantitativamente e qualitativamente adeguato; la minore accettazione sociale di missioni militari rischiose da parte di popolazioni più anziane e infine la minore disponibilità a dedicare risorse di bilancio a un’alleanza militare piuttosto che a programmi di welfare per la terza età. Né infine gli attuali flussi migratori – principalmente di matrice ispanica e asiatica negli Stati Uniti, e sempre più africana e di fede islamica in Europa – con i rispettivi e diversificati effetti sulle future leve militari e sulle priorità geopolitiche dei Paesi ospitanti, inducono a predire uno scontato riavvicinamento tra le due sponde dell’Atlantico. (Public Policy)

@marcovaleriolp

* autore, con Antonio Golini, del libro “Italiani poca gente. Il Paese ai tempi del malessere demografico” (LUISS University Press)