Le scelte del Governo sulla Difesa aggravano ritardi ed equivoci

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di Carmelo Palma*

ROMA (Public Policy) – Nel Documento programmatico pluriennale della Difesa 2024-2026, presentato alle Camere il 12 settembre 2024, il ministro Guido Crosetto (nella foto) scriveva: “Siamo ancora lontani dal conseguire una spesa per la Difesa pari al 2% del Pil entro il 2028”. In particolare, “il valore del budget Difesa/Pil, che nel 2023 si era attestato sull’1,50%, per il 2024 prevede una stima pari all’1,49%. Un dato in ulteriore calo si prevede nel 2025 e nel 2026, con una percentuale dell’1,44%”.

Due mesi dopo, in vista dell’approvazione della legge di Bilancio 2025, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti durante un’audizione in Parlamento dichiarò: “L’obiettivo del 2% del Pil richiesto dalla Nato risulta molto ambizioso e non del tutto compatibile sotto il profilo in particolare delle coperture con il quadro vigente della governance europea. Alla luce, infatti, degli stanziamenti previsti dal disegno di legge di bilancio arriveremo alla percentuale dell’1,57% nel 2025, dell’1,58% nel 2026 e dell’1,61% nel 2027”.

Dopo pochi mesi sorprendentemente fu lo stesso Giorgetti ad assicurare, in un’audizione in Parlamento sul Documento di finanza pubblica, che nel 2025 l’obiettivo del 2% sarebbe stato raggiunto riqualificando alcune spese del bilancio della difesa eleggibili ai fini Nato e finora escluse dal punto di vista contabile.

Il recente Documento programmatico pluriennale della difesa 2025- 2027, trasmesso alle Camere pochi giorni fa, non documenta con precisione dove siano stati recuperati contabilmente i 10 miliardi necessari al raggiungimento del 2% nel 2025.

Il volume complessivo del bilancio ordinario della Difesa riportato in questo Documento è di 31,3 miliardi nel 2025 e rispettivamente 31,2 miliardi e 31,7 miliardi per il 2026 e il 2027. Considerando il bilancio integrato della Difesa, cui concorrono “i fondi presso il ministero dell’Economia e delle finanze (Mef) per il sostegno alla partecipazione dell’Italia alle missioni militari internazionali e gli stanziamenti allocati per specifici interventi nell’alveo del Pnrr”, queste cifre salgono per gli anni 2025, 2026 e 2027 rispettivamente a 35,5, 35,9 e 36,6 miliardi.

Anche considerando il bilancio integrato, l’Italia rimane distantissima dall’obiettivo del 2% (per il 2025 pari a circa 45 miliardi) e quindi occorre supporre che i 10 miliardi mancanti facciano riferimento a altri, non meglio precisati, capitoli di spesa del bilancio pubblico. Intanto, come è noto, nel giugno 2025, nel summit tenutosi all’Aja la Nato ha aggiornato l’obiettivo di bilancio per gli Stati membri, portandolo al 5% del Pil da raggiungere entro il 2035, suddiviso tra un 3,5% per funzioni militari core e un 1,5% per funzioni connesse (quali ad esempio la protezione delle infrastrutture critiche e la ricerca e l’innovazione industriale nel settore della Difesa).

Negli stessi giorni in cui veniva presentato il Documento programmatico della difesa 2025- 2027, il Parlamento discuteva e approvava il Documento programmatico di finanza pubblica (DPFP), in cui rispetto ai nuovi obiettivi Nato il ministro Giorgetti è tornato a definirsi molto prudente, malgrado la Commissione Ue abbia nel frattempo autorizzato per gli Stati membri l’attivazione della clausola di salvaguardia generale di cui all’art. 25 del Regolamento Ue n. 1263/2024 e quindi la possibilità di deviare dalla traiettoria della spesa per le spese militari aggiuntive (possibilità su cui il Governo si è riservato di decidere, dopo l’uscita dalla procedura per disavanzo eccessivo).

A ciò si aggiunge la disponibilità della linea di credito assicurata dallo strumento finanziario SAFE (Security Action For Europe), a cui l’Italia ha già deciso di accedere vedendosi assegnare un importo complessivo pari a 14,9 miliardi.

Nel DPFP si ipotizza una crescita della spesa per la Difesa dello 0,15% negli anni 2026 e 2027 e dello 0,2% nel 2028, per raggiungere in tre anni un livello superiore di circa 11 miliardi a quello del 2025. Si tenga però presente che, secondo gli accordi Nato, la spesa per la Difesa dovrebbe crescere in dieci anni fino a raggiungere una cifra compresa tra i 140 e i 150 miliardi, se la crescita media del Pil nominale nel decennio fosse tra il 2 e il 3%. Peraltro l’ipotesi di crescita della spesa prospettata da Giorgetti, molto più lenta di quella necessaria al raggiungimento dell’obiettivo del 5% al 2035, rimane interamente sulla carta, perché il DPFP precisava che da parte del Governo “non si ritiene possibile riuscire a definire puntuali programmi di spesa già nella prossima legge di bilancio”, e “ci si impegna in tempi rapidi, presumibilmente all’inizio del prossimo esercizio finanziario, a sottoporre al Parlamento la descrizione della pianificazione della spesa militare aggiuntiva”.

La legge di Bilancio presentata dal Governo ha confermato gli indirizzi del DPFP e non ha programmato alcun aumento della spesa per la Difesa. Quindi la sintesi (non malevola) della situazione è questa: il Governo sostiene di aver raggiunto il 2% del Pil, ma non si capisce come l’abbia fatto, senza peraltro migliorare l’efficienza operativa del sistema di difesa, visto che si è trattata di una pura operazione contabile e rispetto al nuovo impegno del 5% del Pil si rinvia qualunque decisione a tempi migliori.

Non c’è dubbio che dietro questa scelta ci siano problemi tecnici significativi. La deviazione dalla traiettoria della spesa netta per finanziare spese aggiuntive in materia di Difesa, anche se non rappresenta un’infrazione, rappresenterebbe comunque un aggravio del deficit, se non fosse compensata da tagli o da aumenti delle entrate. La rigidità del bilancio pubblico italiano – appesantito dalle ipoteche del servizio del debito e di una spesa previdenziale monstre – rende complicate operazioni di riqualificazione della spesa. È altrettanto indubbio che ci siano fortissime pressioni politiche, non solo da una parte delle opposizioni (“investono in armi e non in sanità”), ma anche dal partito cui appartiene il ministro dell’Economia, la Lega, che ha maldigerito gli impegni assunti da Meloni (e imposti da Donald Trump) in sede Nato ed è impegnatissima a neutralizzarne gli effetti, come sull’altro dossier sensibile del sostegno all’Ucraina.

Visto che però le spese per la Difesa non sono un costoso adempimento burocratico, ma una necessità esistenziale in un ordine internazionale in cui la guerra è tornata come fattore decisivo degli equilibri politici, i ritardi e gli equivoci che si continuano ad accumulare sul tema non rimarranno purtroppo senza conseguenze.

A frenare il Governo, oltre alla oggettiva “impopolarità” delle spese militari e all’orientamento ‘pacifista’ della Lega è anche una riserva politica circa il framework istituzionale in cui inquadrare l’evoluzione del pilastro europeo della difesa. Nel 2024 la spesa per la Difesa dei 27 Stati membri dell’Ue è stata di 343 miliardi di euro, con un aumento del 19 per cento rispetto al 2023. Nel 2025 si prevede che la spesa cumulata sarà di 381 miliardi di euro, il 52% in più dell’ultimo esercizio, il 2021, precedente all’invasione su vasta scala dell’Ucraina.

La spesa militare dei Paesi Ue è oggi attestata a un livello pari a due volte e mezzo quello della Russia, eppure la gran parte dei Paesi europei, compresa l’Italia, ammette che non sarebbe in grado di affrontare un’aggressione militare da parte di un Paese terzo. È dunque evidentissimo che un approccio di mero coordinamento organizzativo tra forze nazionali, prive di una direzione politica e militare comune non sarà in grado di fronteggiare un’emergenza e continuerà a dissipare risorse secondo un modello “nazionalizzato”, che impedisce la standardizzazione e l’interoperabilità dei sistemi militari e determina una grave inefficienza operativa.

Inoltre senza vere forme di integrazione politico-istituzionale sarà impossibile raggiungere gli altri obiettivi del Defence Readiness Roadmap 2030, a partire dalla creazione di una dimensione europea dell’industria della difesa nelle catene di fornitura e nell’autonomia tecnologica e produttiva. La deterrenza militare europea o è collettiva o non è deterrenza, ma debolezza e le scelte del Governo nazionale sul tema non sembrano in grado di porvi rimedio, ma semmai di aggravarla. (Public Policy)

@carmelopalma

(foto cc Palazzo Chigi)

*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato