di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) – “Harris o Trump? Alcuni sostengono che il futuro dell’Europa dipende dalle elezioni americane, mentre dipende prima di tutto da noi. A condizione che l’Europa cresca finalmente e creda nella propria forza. Qualunque sia l’esito, l’era dell’outsourcing geopolitico è finita”.
A pochi giorni dalle elezioni statunitensi, il presidente polacco Donald Tusk aveva detto in poche parole tutto quel che c’era da dire a proposito della fine della garanzia americana, sul cui gratuito affidamento, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, avevano potuto contare prima i Paesi della vecchia Europa, al di qua della frontiera di Yalta, poi, dopo la caduta del Muro e i vari processi di allargamento, della pericolosa frontiera russa. I pasti gratis della difesa e sicurezza dalle minacce strategiche per il continente avevano iniziato a essere razionati da tempo, anche da amministrazioni Usa democratiche. Adesso forse le forniture saranno interrotte. Cosa l’Europa vorrà fare da grande dipende innanzitutto dalla sua capacità di diventare grande e di emanciparsi, anche psicologicamente, da una rendita che aveva imparato, sbagliando, a considerare storicamente dovuta. Il diritto acquisito a quello che Tusk chiama l’outsourcing geopolitico è finito.
Contro il passaggio dell’Europa all’età adulta congiurano vari fattori, interni ed esterni, molto dei quali collegati tra di loro.
Il primo è rappresentato dalla costituzione sostanziale dell’Ue, concepita per un governo “amministrativo” da tempi di pace sicura e perpetua, in un quadro di alleanze obbligate e immutabili. L’Europa del Trattato di Lisbona, dopo l’abbandono del processo costituente a seguito dei referendum francese e olandese del 2005, è un’Europa insieme troppo grande e troppo piccola per nutrire l’ambizione e corrispondere alla necessità di avere una, e una sola voce su tutti le sfide esistenziali che la riguardano. L’Europa è troppo grande perché è composta da Paesi, come ad esempio l’Ungheria o la Slovacchia, che ormai orbitano nel sistema russo e che in ogni caso non si fanno scrupolo di teorizzare una “neutralità strategica” (Orban), incompatibile con l’appartenenza all’Ue, che o è un progetto strategico o non è.
In secondo luogo, l’Europa è troppo piccola nel suo scheletro e nei suoi muscoli istituzionali per funzionare diversamente che da tavolo di feudatari nazionali di un impero peraltro inesistente. L’inadeguatezza dell’Europa di oggi alle sfide di domani è insieme causa e effetto della penetrazione politica di illusioni nazionaliste e sovraniste, che nessuno stato membro può trumpianamente coltivare se non al prezzo del ridicolo.
È davvero difficile immaginare che l’Europa possa tutta intera mutare pelle e non sia invece costretta – sempre che ci riesca – a scomporsi e ricomporsi, usando meccanismi istituzionali esistenti (le cooperazioni rafforzate), o paralleli (come quelli usati in ambito finanziario, ad esempio col Mes), per esercitare una vera responsabilità europea, oggi soggettivamente e oggettivamente inesistente ai vertici e nelle decisioni dell’Unione. L’Europa di domani sarà alle prese con numerosissime questioni di frontiera: politica, militare e commerciale e dovrà fare i conti pure con una inedita frontiera apertasi all’interno del mondo atlantico, che dal 1945 eravamo abituati a considerare un unico corpo e un’unica anima. A maggior ragione, per resistere, anzi semplicemente per esistere, l’Ue non potrà avere troppe frontiere al proprio interno.
Quella che oggi è l’Unione europea avrebbe i fondamentali demografici, economici, culturali e tecnologici per rappresentare uno dei blocchi che si confronteranno domani in una sfida senza rete e ad alleanze molto variabili. Non è detto che ne abbia i fondamentali morali e questo lo scopriremo presto, in Ucraina. (Public Policy)
@CarmeloPalma