di David Allegranti
ROMA (Public Policy) – Il ddl Sicurezza (approvato alla Camera e ora in esame al Senato) contiene una norma, l’articolo 15, che per la prima volta in oltre 80 anni di storia legislativa italiana intacca e scardina il paradigma di tutela dell’infanzia e della maternità in fase di esecuzione pena, eliminando una norma introdotta nel codice penale dal legislatore fascista: “Si tratta della previsione che abroga la norma che rende oggi obbligatorio il rinvio della pena per donne incinte e madri di prole fino a un anno di età. Insomma, il legislatore fascista aveva previsto un divieto totale, in fase di esecuzione pena, di ingresso in carcere per le donne incinte e i neonati”, dice a Public Policy la filosofa del Diritto e direttrice de L’Altro diritto Sofia Ciuffoletti.
“Se tale norma sarà approvata, quindi, questo legislatore si renderà responsabile dell’ingresso in carcere di un numero, che andrà calcolato (non ci sono dati a supporto di questa misura, infatti, né il ministero fornisce il dato sul numero dei rinvii obbligatori della pena, ma basti pensare che oggi in carcere e negli Istituti a Custodia Attenuata per donne Madri detenute, cosiddetti ICAM, ci sono, al 31 ottobre, 16 donne per 18 minori, possiamo solo immaginare, dunque, che i numeri cresceranno in maniera dirompente), di neonati che spenderanno in carcere il primo anno di vita e di donne che vivranno la gravidanza all’interno di un contesto recluso, sovraffollato e in condizioni di forte esposizione fisica e psicologica, senza i supporti che favoriscono l’accesso alle informazioni sanitarie, alla tutela della salute (si pensi che ormai in moltissimi contesti regionali i percorsi maternità delle AUSL sono gestiti attraverso piattaforme e applicazioni digitali)”.
Se il discorso politico, spiega ancora Ciuffoletti, ha “venduto” queste misure come una forma di “protezione dell’infanzia” dalla strumentalizzazione che della gravidanza e maternità farebbero le “cattive madri” (e per cattive madri, senza troppo pudore, sono state indicate in maniera molto espressiva le donne rom), “alla drastica rottura del paradigma di protezione dell’infanzia e della maternità (archetipo mai elaborato di una ‘nazione mammona’) si aggiunge un evidente dato di discriminatorietà che contribuisce alla frizione disastrosa di questa misura con il contesto costituzionale e convenzionale caratterizzato dall’art. 3 e 31 Cost., dall’art. 3, 8 e 14 della CEDU e dall’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo che prevede all’art. 3 l’obbligo di considerazione primaria degli interessi migliori del/la minore in ogni decisione che li riguardi”.
Non si illudano, dunque, i decisori politici: “Queste norme non serviranno solo a imprigionare le cattive madri rom e i neonati rom, ma abbatteranno l’argine di un limite invalicabile (purtroppo labile anche a normativa vigente, basti pensare che non si applica alle donne e ai loro ‘bambini e bambine galeotti’, in misura cautelare che, infatti in carcere ci sono eccome): mai neonati in carcere, mai donne incinte in carcere. Adesso a questi stessi decisori è richiesto di riflettere sulle conseguenze della rottura del paradigma di tutela dell’infanzia e della maternità, in termini di numeri e capacità allocative del nostro sistema penitenziario, ma non solo”.
Il costo sociale (l’incidenza sulla salute e sul percorso evolutivo delle bambine e dei bambini che cresceranno in carcere e sulla salute psico-fisica e la dignità di donne in una condizione di particolare esposizione esistenziale) ed economico di queste misure non è stato calcolato, ma rischia di diventare insostenibile, osserva Ciuffoletti: “Non si tratta, dunque, di misure a costo zero. Incarcerare neonati e donne incinte costerà, costerà nel breve termine in modo drammatico sui diritti individuali e su un sistema già largamente sovraffollato e dilapidato, ma costerà in termini di impatto sociale, di patologie fisiche, psicologiche e di natura evolutiva indotte dall’incarceramento che saranno prese in carico dal nostro sistema sanitario. Costerà in termini di recidiva, costerà in termini di danno prodotto dalla mancata presa in carico territoriale della eventuale marginalità, di impoverimento delle relazioni sociali, di creazione di una relazione simbiotica mamma-figlio/figlia che al compimento dei 3 anni (o dei 6/10 in ICAM) rischia di trasformarsi in una separazione forzata, con rottura della diade con effetti drammatici e ormai studiati dalla letteratura internazionale. Costerà perché i neonati cresceranno nel primo anno di vita in contesti forzatamente monosessuali (solo donne tra le detenute, come tra le agenti penitenziarie), in luoghi fatiscenti, in cui manca lo spazio fisico e mentale per uno sviluppo fisico e mentale sano, per far evolvere i sensi e costruire la capacità cognitiva (l’epidemiologia dei danni da istituzionalizzazione dei neonati è materia molto poco frequentata in Italia, con l’eccezione di uno studio del 2009, ma frutto di vari studi a livello internazionale)”.
È quantomeno singolare, sottolinea Ciuffoletti, “e ci deve far riflettere che proprio una forza politica che si ispira e rivendica la tutela della maternità e dell’infanzia stia condannando una porzione di neonati a subire i danni da istituzionalizzazione nel primo anno di vita e stia inaugurando per la prima volta in Italia una politica penale del nemico minorenne, addirittura del nemico neonato. Si tratta di una scelta di politica criminale che condannerà chiunque ne sia compartecipe a pagarne il prezzo, in termini di conseguenze economiche e culturali, ma anche di consenso politico”. (Public Policy)
@davidallegranti