di Carmelo Palma*
ROMA (Public Policy) – Chi ricorda il “lavorare meno, lavorare tutti” degli anni ’70 e ’80 e l’illusione che mandare precocemente in quiescenza milioni di lavoratori poco più (e a volte poco meno) che cinquantenni avrebbe liberato milioni di posti di lavoro a favore dei giovani e portato alla piena occupazione? Chi non ha memoria delle retoriche politico-sindacali (rigorosamente bipartisan o, come si diceva ai tempi, consociative) di quella stagione remota, ne rammenterà la replica in tempi più recenti, dopo l’approvazione della riforma Fornero. Da destra e da sinistra, arrivarono accuse veementi non solo di attentare ai diritti acquisiti dei pensionandi, ma anche di impedire, creando un tappo di lavoratori anziani, l’accesso al mercato del lavoro di lavoratori più giovani.
In tempi ancora più prossimi, con il Governo gialloverde, l’approvazione della cosiddetta Quota 100 (pensionamento anticipato con 62 anni di età e 38 di contributi) venne giustificata, visti i suoi costi ingenti, anche con la possibilità di far spazio a due o tre nuovi giovani lavoratori per ogni nuovo pensionato precoce. Ipotesi molto ottimistica e immediatamente smentita dai fatti.
Il presupposto di questa impostazione sbagliata e ingannevole è che il mercato del lavoro sia a somma zero, con una domanda determinata e un’offerta esattamente corrispondente, cosicché se qualcuno entra, qualcun altro deve uscire. Però il mercato innesca dinamiche contro-intuitive e come crea valore, così crea lavoro apparentemente “dal nulla” e il suo concreto funzionamento dimostra, a differenza di quel che verrebbe spontaneo pensare, che sempre e ovunque quante più persone lavorano – cioè producono, innovano e inventano – tante più persone possono trovare lavoro, proprio perché l’occupazione non è una risultante statistica che sta a valle dei processi economici reali, ma ne è il motore fondamentale.
Anche i referendum della Cgil sui licenziamenti illegittimi e sui contratti a termine partono dal presupposto di un mercato del lavoro a somma zero, secondo cui, se è più facile fare contratti a termine, vi saranno meno contratti a tempo indeterminato, a maggior ragione se in questi ultimi sarà più facile interrompere il rapporto di lavoro, per il venir meno della tutela reintegratoria in caso di licenziamento illegittimo.
Questo presupposto è una somma di errori: il primo è di escludere che il mutamento del framework normativo del lavoro dipendente abbia effetti incentivanti anche sulla domanda, e non solo sull’offerta; la seconda è l’identificazione della precarietà del lavoro con l’assenza della tutela reintegratoria, che non è mai stata, neppure quando vigeva l’articolo 18 in versione originale, una vera opzione per il lavoratore, ma ha sempre rappresentato un’arma negoziale per giungere a più cospicui indennizzi nelle cause di lavoro; il terzo è di ritenere che rapporti provvisori e à la carte siano sempre nell’interesse dei datori di lavoro, come se si trattasse semplicemente di sostituire delle braccia con altre braccia e i lavoratori fossero tutti fungibili.
La Cgil attacca le riforme sui contratti di lavoro addebitando ad esse la responsabilità di fenomeni, come i bassi salari e la fragilità del tessuto produttivo e quindi la vulnerabilità dei lavoratori, che non hanno letteralmente niente a che fare con la nuova disciplina del lavoro dipendente, cui si devono invece risultati opposti a quelli sia paventati, sia denunciati. Nel 2014, prima del famigerato Jobs Act, in Italia c’erano circa 16,6 milioni di lavoratori dipendenti, circa 14,3 dei quali a tempo indeterminato e 2,3 a tempo determinato. Alla fine del 2024, i lavoratori dipendenti erano diventati 19 milioni, di cui 16,4 a tempo indeterminato (due milioni in più che dieci anni prima) e 2,6 a tempo determinato.
Peraltro nello stesso periodo non è affatto esploso il numero dei lavoratori autonomi, che sono passati da 5,4 a 5 milioni, con una presumibile riduzione delle finte partite Iva, impiegate in mansioni subordinate (Istat, Serie storiche). Né si può sostenere che nei contratti a tempo indeterminato il passaggio al sistema delle tutele crescenti abbia suscitato nelle imprese maggiore propensione o incentivo al licenziamento: se si guardano le cessazioni dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato registrate dall’Inps, che comprendono i licenziamenti, i dati del 2024 sono pressoché perfettamente allineati a quelli del 2014 (1,65 contro 1,78 milioni).
Inseguire i miraggi del senso comune è sempre la pratica più comoda e redditizia di manipolazione del consenso, ma dissemina conseguenze che, con un espediente altrettanto manipolatorio, i responsabili provano e riescono con relativa facilità ad addebitare a cause o responsabilità esterne (l’Europa, le multinazionali, l’immigrazione, la globalizzazione…e il cinismo dei datori di lavoro). È esattamente quel che si è fatto e si continua a fare in Italia, dove in questo modo si è diventati il Paese con la più bassa occupazione dell’Ue e (insieme alla Grecia) della più alta spesa pensionistica sul Pil.
Ora, se i referendum della Cgil andassero in porto, si potrebbe pure diventare il Paese campione del contro-riformismo autolesionistico. Perché accusare norme che hanno funzionato di tutte le disfunzioni, da cui è afflitto il nostro mercato del lavoro – bassa produttività e bassi salari, scarsi livelli di istruzione e di occupabilità e concentrazione della forza lavoro nei settori a basso valore aggiunto – ma con cui le norme incriminate non c’entrano assolutamente nulla? (Public Policy)
@CarmeloPalma
*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato