Le corporazioni digitali e un’idea politica di Europa

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di Víctor J. Vázquez*

ROMA (Public Policy) – L’Unione europea non ha una costituzione scritta, nel senso stretto del termine, ed è un fatto che il tentativo di adattare il mito del potere costituente alla costruzione dell’Ue è fallito. Ciò non significa, tuttavia, che l’Unione sia priva di un’identità costituzionale, in senso materiale, considerando la sua struttura politica, i suoi valori fondativi e il ruolo che i diritti svolgono, sia come limite ai poteri dell’Ue, sia nella definizione della cittadinanza europea. In ogni caso, come abbiamo visto con la crisi dell’euro o come vediamo ora con la guerra in Ucraina, la nostra idea politica di Europa non è sostenibile senza una consapevolezza della necessità di difendere, giuridicamente e politicamente, questa costituzione materiale che le fa da struttura.

Il fatto che abbia iniziato la mia discussione sui problemi giuridici legati alla regolamentazione delle grandi aziende digitali con un breve excursus sul contesto esistenziale dell’Ue come realtà politica è dovuto al fatto che le questioni legate alla gestione dell’opinione pubblica digitale non possono essere comprese senza prendere in considerazione altre realtà di natura meta-costituzionale.

La costituzione materiale del mondo digitale ha origine, come non potrebbe essere altrimenti, negli Stati Uniti, il Paese in cui questa tecnologia è stata sviluppata. Mi riferisco al noto Decency Act, con cui nel 1996 viene modificato l’articolo 230 del Codice Federale delle comunicazioni. Se fino a quella data il grande mito giuridico della libertà di espressione per i giuristi statunitensi della comunicazione era una sentenza, New York Times Co. v. Sullivan, dal Decency Act in poi è una legge federale a essere diventata oggetto di culto feticistico, per il suo indiscutibile contributo alla creazione e allo sviluppo delle grandi aziende digitali Usa che operano, da una straordinaria posizione di dominio, a livello mondiale. In definitiva, il Decency Act è stato fondamentale per stabilire un nuovo quadro di riferimento per la formazione dell’opinione pubblica.

Il principio strutturale di questa norma è l’esenzione da responsabilità delle aziende intermediarie nella società digitale, le quali non devono rispondere di ciò che viene pubblicato o dei criteri “editoriali” dietro ciò che viene censurato o raccomandato. Il Decency Act 230 ha consacrato, per dirla in modo più espressivo, un vero principio di sovranità sui propri forum a favore delle piattaforme online e dei motori di ricerca, in modo tale che, come ha confessato Mark Zuckerberg, la gestione di questi forum, quando si tratta di piattaforme come Facebook o X, con centinaia di milioni di utenti in tutto il mondo, è più assimilabile alla gestione di uno Stato che a quello di un’azienda.

Paradossalmente, il primo tentativo di abrogare questo statuto sovrano è stato compiuto da Donald Trump, attraverso un ordine esecutivo nel crepuscolo del suo primo mandato presidenziale, con il quale si è cercato, senza successo, di abrogare il quadro di immunità delle piattaforme digitali. Aziende che, secondo l’attuale presidente degli Stati Uniti, lungi dall’essere intermediari neutrali, agivano, dal clima ideologico corrotto dell’East Coast, come arbitri parziali dell’opinione pubblica. In sintesi, operavano al servizio del settarismo liberale, arrivando a cancellare gli account dello stesso Presidente degli Stati Uniti, dopo l’assalto al Campidoglio.

Erano anche repubblicani gli stati che come Texas e Florida hanno approvato nel 2021 leggi per negare questa sovranità digitale delle grandi reti sociali, richiedendo, in nome della democrazia, un impegno delle piattaforme online per la neutralità ideologica. Sono proprio queste due leggi, nate contro la dittatura del politicamente corretto imposta dalle élite tecnologiche un tempo liberali, che hanno permesso alla Corte Suprema degli Stati Uniti di affermare che la sovranità delle grandi corporazioni digitali è protetta dal Primo Emendamento della Costituzione stessa. I poteri pubblici non potranno in nessun caso imporre la propria idea particolare di quale debba essere l’equilibrio corretto nell’esercizio della libertà di opinione nei forum digitali. Questa sentenza, Moody v. NetChoice, risale al luglio 2024, ma il suo significato assume una dimensione radicalmente diversa dopo la campagna elettorale e il risultato delle ultime elezioni presidenziali. Le grandi corporazioni digitali che, di loro spontanea volontà, si sono schierate a difesa dell’ordine costituzionale contro il tentativo di Trump di impedire la successione alla guida dello Stato, mettendo in discussione i risultati elettorali, oggi hanno siglato un patto esplicito di sostegno al suo ritorno alla Casa Bianca. Nel caso di Elon Musk, il proprietario di X, ciò si è manifestato con la sua nomina a capo di un dipartimento governativo.

Tuttavia, tra i molti simboli di questo patto tra l’oligarchia tecnologica e la nuova amministrazione, pochi sono tanto espressivi quanto la comparsa di Zuckerberg che annuncia un ripristino libertario della libertà di espressione nel suo forum. Cioè, la fine dei filtri che, volontariamente, anche se non senza pressioni del governo federale, le stesse piattaforme digitali avevano adottato per evitare certi discorsi distorsivi delle libertà e il normale funzionamento democratico. Zuckerberg, inoltre, ha chiesto esplicitamente al presidente Trump di sostenere, facendo leva sulle prerogative della sua posizione, la liberazione di aziende come META dai limiti giuridici che altri Stati impongono alle politiche editoriali delle piattaforme online.

Se durante il mandato di Joe Biden c’era una relazione di tensione tra i timidi tentativi regolatori di questa amministrazione, principalmente in ambito di concorrenza e grandi piattaforme, qui ci troviamo di fronte a una coalizione espressa tra il leviatano tecnologico e il potere presidenziale. Quest’ultimo, almeno per due anni, sarà esercitato senza il contrappeso di nessuna delle camere, con una Corte Suprema di inequivocabile colore repubblicano e con un presidente che, proprio grazie a una sentenza di questa Corte, gode di immunità assoluta rispetto a qualsiasi atto compiuto nell’ambito delle sue attribuzioni presidenziali.

David Allen ha pubblicato qualche giorno fa sul Financial Times un articolo il cui titolo espressivo, The coming battle between social media and the State, riassume bene la natura politica del problema posto dal fatto che queste aziende transnazionali aspirano a godere, ovunque operino, del quadro di sovranità assoluta sui loro forum di cui godono attualmente negli Stati Uniti. Si pretende che i Paesi importatori di tecnologia importino anche, necessariamente, lo stesso modello di (de)regolamentazione. La realtà, tuttavia, è che pochissimi Stati hanno la capacità, da soli, di condurre davvero questa battaglia. Si tratterebbe quindi di un conflitto apparente in cui, per dirla in termini marxisti o schmittiani, a seconda di come la si guardi, la politica avrebbe poche possibilità di prevalere sulla struttura dell’economia digitale. Questo sarebbe il presupposto di molti Paesi europei, presi isolatamente, ma non è il presupposto dell’Ue.

La capacità del diritto europeo di imporsi sulla volontà di deregolamentazione delle grandi aziende digitali è sostanzialmente maggiore – come ci mostra la recente esperienza brasiliana, rispetto a X – se consideriamo le dimensioni del mercato dell’Ue. Tuttavia, dietro il tentativo di governare la tecnologia digitale delle grandi imprese nell’Ue, c’è qualcosa di più di una semplice fiducia nelle possibilità del diritto. L’attività legislativa dell’Ue in questo settore, costituita dal Digital Market Act, dal Digital Service Act e dal Freedom Media Act, cristallizza il tentativo di costituzionalizzare la gestione dell’opinione pubblica digitale. Nell’idea di costituzione è insita, sì, l’idea di libertà, ma non di meno, quando si tratta di potere, l’idea di limite. In questo senso, la regolamentazione europea ha una dimensione costituzionale. Si tratta di una normativa che nega alle grandi corporazioni digitali la possibilità di essere sovrane nel proprio forum, laddove siano in gioco elementi essenziali dell’ordine politico democratico, come la tutela dei diritti, la sicurezza nazionale o il regolare svolgimento dei processi elettorali.

Per quanto riguarda quanto sopra, la realtà è che l’efficacia di questa normativa ha una dimensione esistenziale per l’Unione. Dietro di essa, la questione principale che si agita non è tanto quale idea abbiamo della libertà di espressione, quanto piuttosto quale idea abbiamo della sovranità democratica e dell’identità costituzionale dell’Ue. Se questa diagnosi può sembrare iperbolica, credo che il sostegno esplicito di Elon Musk ad AfD (Alternativa per la Germania) e ad altre forze politiche di orientamento antieuropeista ci offra oggi la misura del problema. Se partiamo dal presupposto che l’UE non è relativista in fatto di valori e che non deve rimanere passiva di fronte a movimenti che agiscano contro la sua integrità o che promuovano la violazione della sua legalità, è imprescindibile che il diritto europeo intervenga in questi ambiti in cui oggi si conforma l’opinione pubblica democratica, garantendo la tutela dei suoi interessi essenziali. Qualcosa che, d’altra parte, ha fatto in modo ancor più radicale lo stesso legislatore federale statunitense, approvando una legge specifica, nota come Protecting Americans from Foreign Adversary Controlled Applications Act, per chiudere TikTok negli Stati Uniti, a meno che la sua società madre cinese non ceda più dell’80 per cento del suo capitale. Una legge avallata all’unanimità dalla Corte Suprema, che ha ritenuto la tutela degli interessi strategici statunitensi di fronte a un’impresa straniera come fondamento sufficiente per legittimare la chiusura di un forum pubblico.

Nessuno ignora, naturalmente, la complessità tecnica e giuridica che pone il quadro normativo europeo, i costi che può comportare in termini di innovazione tecnologica o i problemi legati alla censura indiretta o collaterale di alcuni discorsi che, eventualmente, possono sorgere a causa di un uso sproporzionato o arbitrario, da parte degli Stati o della stessa Unione, delle capacità di controllo offerte dall’attuale impianto legislativo. Bisognerà prestare attenzione alla correttezza dei procedimenti attualmente avviati dalla Commissione europea e all’applicazione quotidiana della normativa europea da parte dei vari attori, per effettuare una valutazione giuridica ed economica delle disfunzioni del modello. In ogni caso, questa deve essere una riflessione autonoma degli stessi europei attraverso le loro istituzioni. Ciò che non è un’opzione, rispetto al tentativo dell’Ue di governare l’opinione pubblica digitale, è rinunciare alla sua efficacia e ammettere così la propria incapacità politica nell’imporre limiti a un feudalesimo digitale che reclama i suoi frammenti di sovranità. La realtà è che, nelle circostanze attuali, quando si rende esplicito il sostegno da parte del proprietario di una di queste grandi corporation a forze apertamente contrarie ai fondamenti dell’ordine europeo, non vi è molta differenza tra far rispettare il diritto dell’Unione e difendere la sua costituzione. (Public Policy)

@VVzquez

* traduzione di Ignacio Arroyo Hernández. Pubblicato originariamente su Letras Libres. Con il supporto di Open Society Foundations