Identità leghista e rebus Colle // Nota politica

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(foto Daniela Sala / Public Policy)

di David Allegranti

ROMA (Public Policy) – Se una fronda c’è, Matteo Salvini cerca subito di potarla. Nel fine settimana, il segretario della Lega ha partecipato al workshop organizzato dalla scuola di formazione politica del Carroccio e ha smontato qualsiasi ambizione giorgettiana di transitare il suo partito nel Ppe: nell’Unione europea, ha detto Salvini, “il problema non è portare la Lega in gruppetti che inseguono la sinistra, perché se noi politicamente e culturalmente inseguiamo la sinistra abbiamo perso. L’agenda la dobbiamo scrivere noi”. Laddove la sinistra sarebbe, appunto, il Partito popolare europeo. Un percorso incompiuto, secondo le parole del ministro dello Sviluppo economico affidate a Bruno Vespa per il suo ultimo libro, quello di Salvini, europeista a metà. Ma per la verità, al capo della Lega poco interessa la destinazione finale delineata dal suo vice, accuratamente preso di mira al workshop della scuola politica leghista: “Se c’è un centrodestra asservito alla sinistra il mio compito non è inseguire la sinistra, ma portare il centrodestra a tornare a essere orgogliosamente centrodestra, conservatore, liberale rivoluzionario e costruttivo, in Italia e in Europa”. Salvini si è pure concesso una battuta sulla ormai famosa pizza di Giorgetti con Luigi Di Maio, sulla quale molto si è speculato:  “Io, la pizza la mangio con la fidanzata”. E tanti saluti.

La Lega, ultimo partito leninista rimasto, non tollera le rottamazioni. Ma la questione indicata da Giorgetti resta valida: qual è e quale sarà l’identità leghista dei prossimi mesi e anni? Salvini pare aver già dato una risposta, bisogna capire quanto convincente per i vari Luca Zaia e Massimiliano Fedriga. L’orizzonte politico-cultura della Lega è il sovranismo europeo. “Direi che Salvini e Giorgetti mi ricordano i Peppone e i don Camillo di Guareschi: sono molto diversi, e ognuno cerca di fare del suo meglio, ognuno nel suo campo…”, dice a Public Policy Giancarlo Pagliarini, ex ministro del Bilancio nel 1994 (con Berlusconi presidente del Consiglio) ed ex senatore leghista. Mercoledì scorso, Salvini ha avuto un colloquio online con il premier ungherese Viktor Orban e quello polacco Mateusz Morawiecki. L’obiettivo è costruire un nuovo gruppo al Parlamento europeo che tenga insieme polacchi di Pis (Diritto e giustizia), attualmente in Ecr (gruppo dei Conservatori e dei riformisti europei) e gli ungheresi, che sono rimasti fuori dal Ppe. Già questa è una replica ai desideri di Giorgetti e di chi pensa che la Lega possa avere un futuro “liberale”. Il ragionamento vale anche per gli alleati.

Parlando con Public Policy, la settimana scorsa, il senatore di Forza Italia Andrea Cangini ha sottolineato l’incompatibilità fra un centrodestra “moderato” – anche se la parola non è precisa – e un centrodestra sovranista-populista: “Nel giorno in cui Berlusconi a Bruxelles garantiva per l’europeismo di Salvini, il segretario della Lega incontrava Marine Le Pen. È legittimo che i leader politici e di governo incontrino tutti, ma se questi incontri servono a connotare la loro identità, allora abbiamo un problema. È molto difficile pensare che il centrodestra possa identificarsi con Bolsonaro, che viene associato da tutti alla gestione dell’emergenza sanitaria in Brasile, dove ci sono stati 600mila morti. Un leader come Salvini, ambiguo sul tema dei vaccini e sul green pass, farebbe meglio a rendersi più credibile. L’abbraccio con Bolsonaro conduce a una deriva no vax. Serve all’immagine di Salvini? Serve all’immagine di centrodestra? Temo di no”. Da quelle parti, però, c’è stato un mercato florido. Almeno fin qui. “Non ho la palla di cristallo. Penso che nel medio periodo il sovranismo non abbia futuro… Ma non so dire se è una ragionevole previsione oppure solo una speranza”, dice ancora Pagliarini a Public Policy.

La risposta sovranista nasce come reazione a vari fenomeni sovranazionali e politici, troppo complessi per essere governati del tutto. Casomai si possono governare le loro conseguenze, come le difficoltà socio economiche. La scommessa di Mario Draghi come punto di riferimento europeo forse sta tutta qui: saper disinnescare le tensioni sociali.

È puntualmente cominciato il borsino presidenziale per scegliere il successore di Sergio Mattarella. A gennaio, le Camere unite in seduta congiunta individueranno il nuovo capo dello Stato. I nomi già circolano, alcuni vengono tirati in ballo apposta per essere bruciati. Da Marta Cartabia alla “ipotesi Giuliano Amato”, un grande classico del totonomi quirinalizio. Ma c’è anche la possibilità che resti Mattarella. Solo che l’ipotesi prospettata dai partiti – un mandato a termine, due anni e poi a casa – resta complessa da digerire. Anzitutto, perché mai Mattarella dovrebbe accettare un contratto a progetto per una carica che dura naturalmente sette anni? Questa è però una situazione eccezionale. Il taglio del numero dei parlamentari, votato dal Parlamento in omaggio alle derive populiste, comporta una serie di correttivi ancora non concretizzati, come la revisione della legge elettorale. In più, Parlamento e presidenza della Repubblica non sono perfettamente sincronizzati. A febbraio avremo il nuovo capo dello Stato ma le elezioni politiche – salvo novità clamorose ma comunque possibili – saranno nel 2023. Questo Parlamento, già invecchiato precocemente rispetto al 2018, fuori sincrono anche rispetto alla società, eleggerà il successore di Mattarella e il prossimo Parlamento, in cui deputati e senatori saranno ridotti di un terzo, verrà da un altro pianeta. Non solo politicamente, ma istituzionalmente. Dunque, solo un forte accordo politico fra tutte le parti potrebbe apparecchiare l’arrivo di un presidente della Repubblica a termine.

Mattarella potrebbe anche non avere voglia di sottoporsi all’esperimento di ingegneria politica, e sarebbe legittimo. Non potrà tuttavia esserci un passante della storia, se è vero che da Giorgio Napolitano in poi i presidenti della Repubblica hanno acquistato un peso sempre più consistente. Non quello garantito dalla Costituzione, che è rimasto lo stesso e inalterato. C’è chi tuttavia vorrebbe rivedere anche questo. Le parole di Giorgetti sul trasloco di Draghi al Quirinale fanno intendere una trasformazione istituzionale complessa ma in teoria possibile: il passaggio a una Repubblica semipresidenziale, alla francese. Non si vedono Charles De Gaulle all’orizzonte però. La Quinta Repubblica francese nacque dalla scommessa del generale, che promosse una nuova Costituzione che accentrava i poteri nelle mani dell’Esecutivo, vinse uno storico referendum con il 79,25 per cento e poi le elezioni politiche con oltre il 78 per cento. Era la testimonianza di una grande vitalità politica. L’Italia del 2021 pare, invece, un Paese per rassegnati. (Public Policy)

@davidallegranti