Il finanziamento dei partiti, tra ipocrisia politica e demagogia

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di Carmelo Palma

ROMA (Public Policy) – Un interessante rapporto della Direzione per il Bilancio e i servizi finanziari del Parlamento europeo sul finanziamento dell’attività politica nell’Ue certifica che l’Italia, dopo l’approvazione del decreto legge 149 del 1013 (Governo Letta), è il solo Paese dell’Unione ad avere abolito ogni forma di sussidio pubblico diretto ai partiti e ne trae una conclusione tutt’altro che ottimistica sull’alterazione dei meccanismi della competizione democratica, sulla scarsa trasparenza dei contributi finanziari, sulle barriere all’accesso per le nuove forze politiche e sulla sempre più forte dipendenza dei partiti dalle erogazioni, dirette e indirette, provenienti dagli eletti e dalle rappresentanze istituzionali. L’Italia è così passata, con enorme rapidità, da un estremo all’altro.

Nel 2008 i contributi pubblici per i partiti (ai tempi travestiti da rimborsi elettorali, dopo che il referendum del 1993 aveva abolito il finanziamento pubblico istituito nel 1974) ammontavano a circa 250 milioni di euro, superiori a quelli del Paese più popoloso d’Europa e storicamente più generoso verso le forze politiche, la Germania. Cinque anni dopo erano già stati portati a zero. 

In Italia gli unici finanziamenti diretti alla politica (ma non ai partiti) oggi sono rappresentati dai 53 milioni di euro che Camera e Senato destinano ai gruppi parlamentari. Poi c’è il due per mille, cioè la possibilità per ciascun contribuente di versare direttamente due millesimi della propria imposta Irpef a uno dei partiti rappresentati in Parlamento. Nell’ultimo anno di cui si hanno i dati completi, cioè il 2023, avevano esercitato questa opzione circa 1,75 milioni di contribuenti ed erano stati distribuiti così ai partiti circa 24 milioni di euro, somma molto vicina al limite di 25,1 milioni stabilita per legge. Un altro beneficio per i partiti è rappresentato dalla detrazione del 26% sulle erogazioni liberali fino a 30.000 euro per i contributi di persone fisiche e giuridiche, che non possono comunque eccedere i 100.000 euro all’anno per partito per le prime e i 100.000 euro complessivi, cioè considerando tutti i partiti, per le seconde.

Per rendere ancora più stringente la disciplina del finanziamento privato la legge cosiddetta “Spazzacorrotti” (n. 3/2019) ha proibito i contributi da parte di cittadini o società estere e ha esteso la disciplina restrittiva dai partiti alle fondazioni e associazioni, nel cui board siano rappresentati dirigenti ed eletti di partito. La cosa curiosa è che, nel restringere la disciplina, il legislatore gialloverde – si era ai tempi del Governo Conte I – in preda a un furore ideologico a quanto pare accecante si dimenticò di estendere il divieto di finanziamenti esteri anche ai candidati alle elezioni, con il risultato che oggi in Italia è proibito per un francese dare un contributo di mille euro a un partito italiano, ma uno statunitense o un cinese possono donare anche un milione di euro al loro candidato del cuore nelle elezioni per la Camera, il Senato o il Parlamento europeo.

Nel complesso, le norme sul finanziamento dei partiti stabilite in gran parte nel 2013 hanno provato inutilmente a sedare e hanno solo finito per premiare la rivolta antipolitica esplosa nelle urne qualche mese prima, con l’ingresso trionfale in Parlamento del Movimento 5 stelle, sostenuto dal voto di un italiano su quattro, e completatasi qualche anno dopo con il taglio di un terzo dei deputati e dei senatori e delle relative “poltrone”, come sono spregiativamente definiti i seggi parlamentari nella vulgata populista, a cui praticamente tutti i partiti si sono adeguati, in parte per timore, in parte per provare a lucrarne i vantaggi.

Il tema del rapporto tra soldi e politica, in Italia, è da decenni affrontato con gli opposti estremismi dell’affarismo e del moralismo, della grande abbuffata e del digiuno espiatorio, della ostentazione crapulona e della retorica francescana e con un costante difetto di razionalità, oltre che di buona fede, praticamente a tutti i livelli. È lo stesso difetto dimostrato anche dal tentativo bipartisan della scorsa settimana di modificare surrettiziamente il meccanismo del due per mille fino a trasformarlo in un sostanziale finanziamento diretto e a raddoppiarne l’ammontare (da 25 a 45 milioni di euro), con un emendamento fuori sacco al decreto Fisco, subito stoppato – a ragione – dal Quirinale, perché del tutto estraneo alla materia del provvedimento e non giustificato da alcuna ragione di necessità e urgenza.

Partiti alla fame non rendono più florida la società e trasparente la democrazia e come hanno dimostrato le recenti elezioni presidenziali statunitensi, sia tra i democratici, che tra i repubblicani, l’illusione che la “privatizzazione” dei partiti potesse migliorare la competizione democratica si è infranta di fronte all’evidenza di una deriva di segno opposto, cioè oligarchica, quando non direttamente dinastica. Porre però questo problema significa porsi il problema dei fini e dei limiti dell’attività politica, del suo ruolo nella vita sociale e della sua stessa natura in una società avanzata, in cui molte decisioni rilevanti per la vita comune sono ormai assunte fuori dal circuito del potere legale, nazionale e internazionale. Bisognerebbe parlare un linguaggio di verità di cui tutti sembrano diffidenti o incapaci. Non solo in Italia, ma qui in modo parossisticamente grottesco, come dimostra l’oscillazione da un eccesso all’altro.

Tra il fanatismo antipolitico della “democrazia no cost” e l’ipocrisia politicista della prestidigitazione emendativa è difficile capire quale sia la causa e quale l’effetto. È la conquistata egemonia culturale populista a impedire di affrontare questo tema in modo serio e pragmatico o l’inclinazione allo sbraco e all’inganno da parte dei partiti, appena scende il livello di attenzione, a persuadere l’opinione pubblica che la politica sia solo quel “prendi i soldi e scappa” che ha fatto la fortuna del populismo globale? E se invece fossero entrambe manifestazioni uguali e contrarie della stessa incapacità di concepire l’esistenza di una sfera pubblica democratica come infrastruttura necessaria alla tutela e al funzionamento dello stato di diritto e della società aperta e non come il simulacro cadente di un vecchio e superato concetto di legittimità politica? Insomma: la demagogia fanatica degli sfascisti e quella ipocrita dei profittatori non potrebbero essere più un segno di alienazione che di malafede? (Public Policy)

@CarmeloPalma