di Carmelo Palma
ROMA (Public Policy) –Nella storia politica italiana più recente l’Europa è stata un feticcio ideologico di superstizioni ingenue, suscettibile di amori e odi irrazionali: tutti immotivati e lontanissimi sia dal pragmatismo anti-nazionalista dei padri fondatori, sia dalle riserve realistiche sulle conseguenze politico-sociali di un ‘super-Stato’ europeo catturato dagli interessi delle potenze maggiori o a rimorchio dei ricatti e degli azzardi morali di quelle minori (si pensi alla diffusa e meritata nomea dei “Paesi cicala”, tra cui l’Italia).
Così si è potuti passare nel giro di trent’anni dal referendum propositivo per il conferimento di un mandato costituente al Parlamento europeo, plebiscitato dall’88% degli elettori italiani nel 1989 al recente trionfo di forze radicalmente o moderatamente anti-europeiste, rappresentative di circa tre quarti dell’elettorato nazionale.
Nella loro concretezza, però, le istituzioni europee hanno sempre funzionato decisamente bene e molto meglio di quanto ammetterebbero i delusi dal sogno federalista, bruscamente interrotto, nel 2005, dai referendum francese e olandese contro la Costituzione europea, nonché – soprattutto – di quanto hanno sostenuto contro ogni evidenza le forze euroscettiche o eurofobiche, che accusavano l’Ue e l’euro di espropriare surrettiziamente la sovranità e ricchezza nazionale per conto dei “poteri forti” del continente.
Questo pregiudizio per l’Ue reale in nome di un’Ue ideale, sia sul fronte euroscettico, sia su quello nominalmente federalista – che condivideva con il primo le polemiche contro la cosiddetta austerità – non è però dipeso da come ha funzionato l’Ue, ma da come ha “disfunzionato” l’Italia dopo l’introduzione della moneta unica e dalla sua incapacità di cogliere le opportunità offerte dalla costruzione europea, attardandosi in pratiche primo-repubblicane (economia chiusa e corporativa, spesa pubblica improduttiva, parassitismo sociale e istituzionale, in particolare al Sud) insostenibili sul piano finanziario e perdenti su quello sociale.
Così l’Europa è diventata l’alibi comodissimo di ogni fallimento nazionale (la sanità, la scuola, l’occupazione, la produttività, i salari, gli investimenti pubblici e privati) e non c’è stato capo del Governo italiano – ad esclusione dei tecnici Monti e Draghi – che non abbia propagandisticamente usato l’Ue come capro espiatorio dei mali della patria e non abbia promesso di andare a battere i pugni sul tavolo a Bruxelles per vendicare i torti subiti dall’Italia.
All’esito degli spot and go istituzionali che hanno accompagnato il processo di consolidamento e allargamento, la costituzione (termine improprio) dell’Ue è certo insoddisfacente per chi ne avrebbe voluto un’evoluzione federale, ma è stata sufficientemente flessibile per aggirare, quando se ne è data l’occasione o la necessità, i suoi stessi difetti di fabbrica.
Dal whatever it takes di Mario Draghi al Next Generation Ue le istituzioni europee hanno fatto tutto ciò che sulla carta non avrebbero dovuto fare (quantitative easing, debito comune) e hanno dimostrato una politicità ben superiore a quella riconosciuta ai cosiddetti burocrati di Bruxelles.
C’è da credere che la risposta alle nuove sfide che l’Europa ha davanti – prima tra tutte quella della difesa e della sicurezza – saranno affrontate in modo pragmaticamente analogo a quelle passate, senza riforme epocali, come il superamento del diritto di veto nel Consiglio Ue su tutte le decisioni strategiche, ma con un aggiramento degli ostacoli frapposti dalla rigidità dei trattati.
Tutto ciò però comporta come conseguenza che il baricentro delle politiche europee e delle istanze di maggiore integrazione si sposterà dalle istituzioni dell’Ue a quella degli Stati membri, cui toccherà decidere se andare o no avanti su varie materie, senza aspettare i riluttanti o i ritardatari.
A regole esistenti questo impulso non può venire né dalla Commissione, né dal Parlamento europeo che già nella scorsa legislatura ha licenziato – quasi all’unanimità – una proposta di revisione dei trattati rimasta lettera morta. Occorre prendere realisticamente atto che il futuro di un’Europa maggiormente integrata e cooperativa passerà più dalle elezioni nazionali dei prossimi anni che da quelle europee, che si terranno sabato e domenica prossime. (Public Policy)
@CarmeloPalma