La Cosa centrista e il duello M5s // Nota politica

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di David Allegranti

ROMA (Public Policy) – Intanto, una federazione parlamentare: “Italia al centro”, firmata da Matteo Renzi e Giovanni Toti. La rielezione di Sergio Mattarella ha dato il via a quello che era ampiamente prevedibile. La nascita di una Cosa centrista dopo mesi di elucubrazioni, terminate (forse) con la chiusura della tanto attesa partita quirinalizia. D’altronde questo è l’anno pre-elettorale, ci si prepara per il 2023. Si torna a parlare di legge elettorale, si torna a parlare di schieramenti, si torna a parlare di posizionamenti. Da una parte ci sono i cosiddetti progressisti – Pd più M5s; quest’ultimo è in crisi ma ne parliamo nella seconda parte della nota – dall’altra i neopopulisti e i sovranisti. Forza Italia è corteggiata e divisa; c’è chi non vuole morire salviniano, chi non intende finire in un contenitore-federazione-coalizione troppo affollato. Da qui la suggestione del Grande Centro, ammesso che possa esistere. “Il centro dei sette nani non esiste”, motteggia Gianfranco Rotondi, uno che la Dc la conosce bene perché l’ha frequentata intensamente: “Dovevamo rifare la Dc, e invece ci si propone di rifare il Pri (che peraltro esiste ancora, e minaccia pure di farci causa)”, aggiunge.

Forse Rotondi è troppo duro, ma sicuramente i problemi non mancano. Anzitutto, c’è una questione di leadership. Chi lo fa il capo? Non c’è partito o federazione che si rispetti senza leader e chi ha maggiore abilità politica nonché spregiudicatezza – Renzi – non gode di altrettanta popolarità. Nuove leadership non si vede, tant’è chi si torna sempre a parlare di Pier Ferdinando Casini. Qui sta l’altro problema di questo costruendo centro. La sapienza degli uomini della Prima Repubblica affascina gli amanti della politica, poi però bisogna chiedersi – al netto del commento brillante – a che cosa possano essere utili i vari Clemente Mastella per un progetto che sia innovativo nel 2022. Al fondo c’è dunque una domanda: non rischia, questo Centro, di ripetere l’“amalgama mal riuscito”, come da esatta definizione dalemiana del Pd? E qual è la sua missione, quale il collante, a parte essere alternativi al populismo e al sovranismo, variamente intesi? “Il progetto del Centro di cui sento parlare è già vecchio”, ha detto con durezza Graziano Delrio, vecchio amico di Renzi, a Repubblica. Persino Matteo Salvini, in queste settimane politicamente non molto lucido sembra aver centrato il punto: “Una coalizione per essere compatta deve avere un’anima, un obiettivo comune. Leggo che qualcuno sta cercando quest’anima e obiettivo comune con Renzi e Mastella, io non sono nessuno per giudicare, si tratta di vecchi esperimenti”. Naturalmente, il ragionamento di Salvini vale anche per il centrodestra. Qual è la sua anima? Non è chiaro. Forse ha ragione sempre Salvini quando dice che non esiste più: “I referendum sulla giustizia – ha detto il segretario leghista – saranno un banco di prova per il cosiddetto centrodestra, permettetemi di usare il ‘cosiddetto’, perché alla prova dei fatti sono stato uno dei pochi a credere all’unità della coalizione che si è sciolta come neve al sole”. Vero, ma le responsabilità sono anche di chi ha guidato il partito finora più forte. Finora.

Nel Movimento 5 stelle il duello è appena cominciato. Volano cenciate – botte da orbi, per voialtri che non siete toscani – fra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Quello scontro che, più o meno sottotraccia, aveva accompagnato il M5s negli ultimi mesi è dunque esploso. La settimana scorsa, l’ex presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri si erano scambiati cortesie a mezzo stampa, tra Di Maio che accusava l’altro di mancanze politiche sufficientemente consistenti e l’altro che rispondeva, via Fatto Quotidiano, annunciando processi in streaming ed espulsioni: “Di Maio dovrà rendere conto di diverse condotte, molto gravi. Ai nostri iscritti e alla nostra comunità”. Il ministro degli Esteri lo ha però anticipato, dimettendosi da presidente e membro del comitato di Garanzia e scrivendo una lettera: “Penso che all’interno di una forza politica sia fondamentale dialogare, confrontarsi e ascoltare tutte le voci. Tutte le anime, anche chi la pensa in maniera diversa, devono avere spazio e la possibilità di esprimere le proprie idee”. In questo modo, Di Maio anticipa la battaglia che verrà: “Io sarò tra le voci che sono pronte a sostenere il nuovo corso, mantenendo la libertà di alzare la mano e dire cosa non va bene e cosa andrebbe migliorato”. Insomma, una dichiarazione programmatica se non di guerra: “Ho preso questa decisione perché voglio continuare a dare il mio contributo, portando avanti idee e proposte. Voglio dare il mio contributo sui contenuti, voglio continuare a fare in modo che si generi un dibattito positivo e franco all’interno della nostra comunità. Un confronto che ci permetta davvero di rilanciare il nuovo corso del Movimento 5 stelle”.

Interessante che Di Maio parli di nuovo corso, come se non ce ne fosse – in teoria – già uno avviato da Conte. Come se il M5s non avesse già scelto un leader, ovvero l’ex presidente del Consiglio. Come se appunto fosse tutto sbagliato, tutto da rifare. Di Maio versione rottamatore può ricordare un certo senatore semplice, ma qui forse il rischio per il M5s non è una scissione bensì la definitiva frantumazione: “Non è da escludere, ma il processo era già avviato da tempo”, ha osservato il politologo Marco Tarchi sulla Nazione. “Snaturandosi in modo così evidente e rapido, il Movimento non poteva non deflagrare. Per adesso è tenuto insieme dalla speranza dei suoi singoli esponenti di riuscire comunque a rimettere piede in Parlamento fra un anno, ma se una delle due figure prevarrà nettamente sull’altra, la spaccatura si aggraverà”. Un po’ come in Highlander: ne resterà soltanto uno. (Public Policy)

@davidallegranti