La demografia della Chiesa e il pontificato di Francesco

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di Carmelo Palma*

ROMA (Public Policy) – Quando Jorge Mario Bergoglio fu eletto Papa quattro cattolici su dieci abitavano in America Latina, ma la Chiesa sembrò scoprirlo davvero solo quando il collegio cardinalizio innalzò al soglio di Pietro il primo pontefice “venuto dalla fine del mondo”. Quella latinoamericana non era la sola periferia geografica ad avere già cambiato in modo determinante gli equilibri demografici e le urgenze pastorali della Chiesa universale. Quando Benedetto XVI si dimise e Francesco lo sostituì, nell’Africa subsahariana c’era già il doppio dei cattolici del Nord America e in Europa, da cui da milletrecento anni venivano tutti i Papi (l’ultimo non europeo prima di Bergoglio fu il siriano Gregorio III nel 731), viveva meno di cattolico su quattro.

Dopo la morte di Francesco, moltissimi hanno evidenziato i profondi cambiamenti che il suo governo ha impresso alla Chiesa e al mondo cattolico, analizzandone le luci e le ombre. Pochi hanno sottolineato come il suo stesso pontificato fosse il prodotto di una metamorfosi che era già in corso da tempo, ma che non era possibile cogliere in un Paese, come l’Italia, in cui l’immagine della Chiesa non è rappresentata dai religiosi che si incrociano nelle chiese e negli oratori – e che nel 2013 erano già significativamente “stranieri”, termine peraltro improprio nella cattolicità – ma coincide sostanzialmente con la Santa Sede o, peggio, con l’oltre Tevere della politica. Come Giovanni Paolo II, anche Francesco aveva una missione profetica e un programma pontificale inscritti nella sua stessa provenienza.

Woytila fu il Papa che, rompendo con la diplomazia della ostpolitik vaticana, proclamò, nel nome della libertà religiosa e politica, l’urgenza di riunificare l’Europa cristiana, perché tornasse a “respirare con due polmoni”, quello dell’ovest e quello dell’est, ai tempi ancora sottoposto al giogo sovietico. Bergoglio è stato il Papa che, rompendo assai poco con gli assetti dottrinari dei suoi predecessori, proclamò la prevalenza di un’urgenza pastorale legata al corpo concreto della sua Chiesa, in cui la speranza di salvezza e quella di liberazione dall’afflizione, dalla miseria e dalla persecuzione erano ormai diventate inscindibili per ragioni materiali, cioè socio-demografiche.

La Chiesa che cresce rapidamente sempre più lontano dalle sue radici cristiane esprime domande che alle nostre latitudini risultano inevase o incomprensibili sia da parte dei progressisti che dei conservatori. La rappresentazione di comodo del suo contrasto con Ratzinger, come uno scontro tra un modernista e un antimodernista, a mio parere non illumina, ma occulta la vera differenza tra la Chiesa del suo predecessore e quella di Francesco, che non è affatto teologica, bensì pastorale. Quella che per Benedetto XVI era la questione antropologica cristiana, cioè un’etica della vita legata alla morale sessuale, riproduttiva e familiare cosiddetta naturale e a quella sorta di “ortopratica cattolica”, di cui si fecero paradossali banditori i cosiddetti atei devoti, non era per Francesco sbagliata, superata o mostruosa (come si pensa negli ambienti anti-ratzingeriani), ma semplicemente secondaria rispetto alla domanda di conforto e accoglienza che la comunità cattolica di tutto il mondo esprime e che la Chiesa ha il dovere di corrispondere prima di tutto il resto e al di là di tutto il resto. Da qui viene la metafora di Bergoglio forse più famosa, quella della Chiesa come “ospedale da campo”.

“Io vedo con chiarezza — disse in una famosa intervista — che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso”.

Francesco è diventato il nemico giurato di tutti i cattolici ratzingeriani, non perché fosse anti- ratzingeriano, ma perché si è opposto alla conversione del tradizionalismo cattolico in un’ideologia di potere nazionalista, in una sorta di nuovo connubio tra il trono e l’altare. Opzione che Francesco non ripudiava affatto in nome di un’idea liberale dello Stato, che gli era in larga parte estranea, ma per l’impossibilità di abbandonare dall’altra parte dei muri che i cattolici alla Vance vogliono edificare l’assoluta maggioranza dei cattolici del mondo, che quei muri vogliono scavalcare. Negli Stati Uniti ci sono poco più di cinquanta milioni di cattolici, in Centro e Sud America quasi cinquecento ottanta milioni. Il pauperismo di Bergoglio, da questo punto di vista, è stato più un’esigenza ecclesiale che un retaggio ideologico della teologia della liberazione, che peraltro non abbracciò mai, o di una sensibilità peronista classicamente sudamericana. Nella sua predicazione c’è molta accoglienza e carità, ma non c’è alcuna rivoluzione annunciata o minacciata.

È stato un Papa molto “terzomondiale”, ma assai poco terzomondista. Molti aspetti enfatizzati del suo pontificato sono assai meno essenziali di questo radicamento nel corpo materiale della cattolicità. A partire proprio dal presunto progressismo, che è assai difficile declinare in termini euro-occidentali: cultura dei diritti individuali, laicità, autodeterminazione personale. Sull’intero dossier bioetico e biopolitico – aborto, fine vita, procreazione, sessualità – e sulle istanze di riforma ecclesiale – sacerdozio femminile, abolizione del celibato ecclesiastico, sinodalità – Francesco lascia esattamente la Chiesa che aveva trovato, con le stesse divisioni e le stesse contraddizioni. Non ha toccato nulla, non ritenendo nulla di tutto questo davvero essenziale per il futuro e per la forza proselitistica della Chiesa e per la prossimità al suo popolo. Al massimo ha trattato con un po’ di indulgenza bonaria temi – si pensi proprio all’omosessualità – che la Chiesa dei suoi predecessori affrontava con durezza. Ma, per essere chiari, i gay con Bergoglio sono rimasti fuori dai seminari da cui li aveva cacciati Ratzinger.

Il gesuitismo di Francesco si è espresso al massimo grado sui temi geopolitici, in cui la sua prudenza ha finito per essere ambigua ed equivoca, sia rispetto all’aggressione russa all’Ucraina, sia rispetto al conflitto israelo-palestinese, con un pacifismo un po’ troppo equidistante tra aggrediti e aggressori per non apparire sospetto. Anche in questo deve avere contato, oltre a un’estraneità dichiarata ed esibita all’alfabeto politico occidentale – cosa che conferma che ha poco senso considerarlo modernista – anche la necessità di non apparire semplicemente il contrario del “chierichetto di Putin”, che aveva esplicitamente accusato Kirill di essere, e di rimanere così fedele alla sua Chiesa ormai aliena a ogni disegno di potenza. Il collegio cardinalizio che eleggerà il nuovo Papa, malgrado Francesco abbia nominato l’80% dei 135 elettori, non è ancora perfettamente allineato alla nuova realtà demografica della Chiesa, ma presumibilmente continuerà ad essere questo il tema in cima all’agenda del pontefice che succederà a Bergoglio. (Public Policy)

@CarmeloPalma

*l’autore è responsabile dell’Ufficio legislativo di Azione al Senato

(foto cc Palazzo Chigi)