di David Allegranti
ROMA (Public Policy) – La segretaria del Pd Elly Schlein ha detto che firmerà i referendum della Cgil per abolire il Jobs Act. Una scelta che potrà cogliere di sorpresa i compagni di partito sulla tempistica, ma non sul merito: “Ho già detto che molti del Pd firmeranno così come altri non lo faranno. Io mi metto tra coloro che lo faranno. Non potrei far diversamente visto che è un punto qualificante della mozione con cui ho vinto le primarie l’anno scorso”, ha spiegato la leader dem, che nel 2015 lasciò il Pd guidato allora da Matteo Renzi proprio per via della contestata riforma del lavoro. “Me ne vado anch’io, insieme a Civati. È troppo tempo che non mi riconosco più in nulla di quello che fa questo governo”, disse l’allora eurodeputata Schlein nel maggio 2015: “Vale la pena di lottare dentro al partito finché c’è il partito, ma io temo che il partito non esista più e si sia trasformato in un’altra cosa, molto diversa da quella cui avevamo entusiasticamente aderito e da ciò che era nato per essere, perno della sinistra che vogliamo”.
Ora Schlein, che da oltre un anno guida il Pd, ha l’occasione per dare forma al “perno della sinistra” così come se lo immaginava quando non aveva responsabilità dirette di leadership. Lo si era per la verità già intravisto con alcune candidature alle Europee, da Marco Tarquinio a Cecilia Strada, destinata a cambiare il volto pubblico del Pd, e persino nel tentativo, fallito, di candidare Ilaria Salis. L’occasione del Jobs Act era troppo ghiotta per la campagna elettorale schleiniana per farsela sfuggire. D’altronde, se la campagna elettorale per le Europee deve assomigliare a quella per le primarie dell’anno scorso, con il tentativo di apertura verso l’esterno e verso elettorati che o hanno smesso di votare Pd o non l’hanno mai fatto, prendersela con la riforma renziana ha una sua logica.
È interessante però andare a rileggersi che cosa disse Tommaso Nannicini, padre del Jobs Act, qualche mese fa, in un’intervista contenuta nel libro del sottoscritto, “Quale Pd”: “Il Jobs Act è fatto di otto decreti, alcune cose hanno funzionato, altre no, come capita con tutte le riforme complesse. Chi dice che ha creato un milione di posti di lavoro dice una scemenza; chi dice che ha distrutto i diritti dei lavoratori dice un’altra scemenza. Chi parla così, in entrambi i casi, non è interessato ai diritti di chi lavora. È una discussione sul niente, fatta da entrambe le parti per nascondere un impressionante vuoto di idee. Il Jobs Act è una riforma ampia, ha luci e ombre e bisognerebbe parlarne in questi termini, non buttarla in vacca. Durante la fiducia al governo Meloni ben sei parlamentari hanno citato il Jobs Act. Per non dire di quanto ne hanno parlato in campagna elettorale Letta e Renzi, facendosi male da solo il primo. Un teatrino ridicolo”.
Sul Jobs Act, ha detto Nannicini, “c’è un pregiudizio ideologico. Poi per carità, l’errore l’ha fatto per primo il governo di cui ho fatto parte: l’articolo 18 l’avevano già cambiato Monti e Fornero, non c’era bisogno di enfatizzare tanto il tema, ma a un certo punto Renzi decide di usarlo come un simbolo. Per riusare il paragone di prima, anche il Jobs Act in fondo è una riforma Gorbačëv: amata all’estero e odiata in patria”.
E perché? “Perché era pensata per essere venduta all’estero. Doveva convincere la Merkel a darci i soldi della flessibilità per gli ottanta euro. L’idea era, appunto, di far arrabbiare i sindacati e far tornare gli investitori internazionali. Serviva al presidente del Consiglio giusto come simbolo, come feticcio ideologico. È stato un errore toccarlo in quel modo senza dialogare con i sindacati, ma nella riforma c’era tanta altra roba positiva. Poi, per carità, sul resto abbiamo fatto troppo poco; abbiamo messo pochi soldi sulle politiche attive e gli ammortizzatori sociali. Ci abbiamo investito poco perché l’obiettivo era, appunto, un altro. Ma la direzione di quegli interventi era e resta giusta. Una delle più grandi scemenze che circolano è che il Jobs Act ha creato contratti precari. Cavolo, è esattamente il contrario: dopo le riforme precedenti, dalla Treu alla Biagi, che puntavano tutto sui contratti flessibili, era la prima volta che si provava a stringere il precariato, abolendo i co.co.pro. e stringendo le false partite Iva, con una norma che a Torino hanno usato anche i riders per avere più diritti. Poi anche lì avremmo dovuto fare di più, per esempio tornando indietro rispetto al decreto Poletti, che liberalizzava i contratti a tempo determinato e col Jobs Act non c’entrava niente. Ci abbiamo pensato e avremmo voluto farlo, ma poi ha prevalso la paura di ridurre l’occupazione in una fase ancora difficile per la nostra economia”.
Insomma, la questione è più complessa di come viene messa dalla sinistra che desidera soprattutto picconare una delle riforme simbolo dell’epoca Renzi. I riformisti sono comprensibilmente agitati, da Lorenzo Guerini a Marianna Madia, da Alessandro Alfieri a Simona Malpezzi. Ma Schlein li aveva avvisati per tempo. Diciamo almeno dal 2015. (Public Policy)
@davidallegranti