La vittoria di Trump, una questione di (s)fiducia

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di David Allegranti

ROMA (Public Policy) – Donald Trump è di nuovo presidente degli Stati Uniti, dopo quella che potrebbe essere sbrigativamente considerata la “parentesi Biden”. A Kamala Harris, vicepresidente e candidata dei Democratici, non è servito a nulla circondarsi di star, ricevere gli endorsement dei grandi giornali liberal, eccetera eccetera. Trump ha frantumato qualsiasi resistenza esterna e interna.

Ci sarà modo di parlare della disastrosa conduzione della campagna elettorale dei Democratici, che hanno atteso a lungo prima di sostituire Biden, andando peraltro a pescare la sua impopolare vice, alla quale l’attuale presidente aveva affidato il delicato dossier sull’immigrazione, che è stato insieme ad altri al centro del dibattito pubblico trumpiano, alimentato anche grazie all’uso sapiente di alcuni social media.

Uno in particolare, Twitter, oggi noto come X. Trump, che nel 2024 ha potuto contare anche sul sostegno diretto e continuativo di Elon Musk, lo ha usato come un prolungamento della sua voce, un’estensione della propria campagna elettorale permanente, contribuendo ad allargare la distanza fra le fazioni politiche in campo e la polarizzazione del già fratturato dibattito pubblico statunitense attraverso la retorica del complotto, il sentimento antiscientifico e la politica dell’insulto. Ha potuto far fruttare politicamente un radicato senso di sfiducia nei confronti nelle istituzioni e dei media tradizionali, in competizione con i social media per la conquista dell’attenzione di elettori e lettori, conducendo un deliberato attacco verso giornali, radio e tv a suo dire ostili. Nessuno è stato risparmiato, neanche i suoi compagni di partito, trattati alla stregua di nemici da abbattere.

Sarebbe però un errore sostenere che la chiave della vittoria di Trump stia soltanto su X, in quella che potrebbe apparire come una bolla virtuale (che non è ). La questione semmai riguarda il nostro rapporto con la fiducia. Non c’è campagna elettorale senza manipolazione. Ogni campagna elettorale interroga il pubblico, facendo leva sui suoi bias cognitivi. In alcune società più di altre – quella statunitense è appunto fortemente polarizzata, come spiega bene Mattia Diletti nel suo ultimo libro, “Divisi”, pubblicato per Treccani – le campagne elettorali però si trasformano in uno scontro che mette in costante discussione il nostro rapporto con la fiducia. Il problema è quando si ricade nella sfiducia radicale, in virtù della quale non crediamo più a niente; sopratutto non crediamo a quello che dicono le istituzioni, i giornali, i media in generale e coltiviamo un senso generalizzato di delegittimazione e demonizzazione dell’”avversario” di turno. È anche così che è andato alle ortiche il dibattito pubblico negli Stati Uniti, composto di un elettorato frammentato e diviso in nicchie, dunque incapace di comunicare con tutti i pezzi della società.

“Oggi si sta diffondendo un nuovo nichilismo”, dice il filosofo Byung-chul Han. Un nichilismo che è nato nel momento in cui abbiamo perso la fede nella verità stessa: “Nell’era delle fake news, della disinformazione e delle teorie del complotto, stiamo perdendo la realtà e le verità fattuali”. Viviamo in un mondo nel quale c’è chi pensa che due più due non faccia quattro; un mondo nel quale chi è sufficientemente popolare da dettare qualche tendenza politica o sociale può raggiungere, via social media e social network, un potere enorme. Se l’informazione è potere, l’accesso a un mezzo di comunicazione per poterla controllare, per poter addomesticare il messaggio se non manipolarlo, è parte di quel potere.

Trump non ha inventato niente, naturalmente, ma ha saputo alimentare e stressare le linee di frattura già presenti nella società statunitense. E i suoi avversari, chissà, forse lo hanno persino involontariamente aiutato. (Public Policy)

@davidallegranti